Sono passati esattamente 52 anni dal tremendo disastro causato da una frana che ha investito il lago artificiale del Vajont. Si tratta di una delle più grandi tragedie italiane
Vajont era semplicemente il nome di un torrente che scorre nella valle di Erto e Casso, nei pressi di Longarone e Castellavazzo, in provincia di Belluno, per poi confluire nel fiume Piave. Si tratta di tranquille località venete la cui sorte, nel 1963, è stata segnata per sempre da una catastrofe di enorme portata.
Alle 22.39 del 9 ottobre 1963 un’enorme frana di roccia di circa due chilometri quadrati di superficie e 260 milioni di metri cubi di volume, da anni in movimento sulle pendici del Monte Toc, proprio dietro la diga del Vajont, tra il Friuli e il Veneto, precipitò nell’omonimo lago artificiale provocando tre onde, di cui una si diresse verso l’alto, un’altra verso le sponde del lago e la terza, di ben 230 metri d’altezza e 50 milioni di metri cubi di materiale solido e liquido, superò la diga e si abbatté senza preavviso sulla valle del Piave, distruggendo cinque centri abitati posti nelle vicinanze dello sbocco del torrente. Si tratta di Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova e Faè. Gli eventi disastrosi si susseguirono a catena: l’acqua tracimò superando la diga, gli abitati del fondovalle veneto furono inondati, distruzione e morte furono devastanti. La geografia della zona cambiò per sempre. Secondo stime fatte da esperti l’onda d’urto dovuta allo spostamento d’aria fu di intensità simile a quella generata dalla bomba atomica sganciata su Hiroshima. Le vittime furono 1910, di cui 1450 solo a Longarone, centro più colpito. Tra questi anche un bimbo di poco più di 20 giorni. Già durante la costruzione della diga erano morte 10 persone che lavoravano all’edificazione del colosso, i cui presagi negativi sono stati evidenti fin da subito. Alle ore 5:30 del mattino successivo i primi militari dell’Esercito Italiano, soprattutto Alpini, e i Vigili del Fuoco arrivarono sul posto per i soccorsi e il triste compito del recupero dei morti, i cui corpi erano stati seppelliti da cumuli di materiale.
Come è stato appurato anche in seguito non si è trattato solo di semplici presagi o di sfortuna. Sono stati commessi tre grossi quanto imperdonabili errori umani: la diga era stata costruita in una valle non idonea da un punto di vista geologico, elemento che si sapeva da sempre dato che le frane in zona erano state numerose e periodiche, e dell’area in questione aveva parlato persino Catullo, raccontando di una frana che cadde sul fondovalle; altro grave errore fu l’aver innalzato la quota del lago artificiale oltre i margini di sicurezza; infine, forse la mancanza più grave tra tutte, il non aver dato l’allarme quella sera del 9 ottobre per poter consentire l’evacuazione dei residenti nelle zone a rischio di inondazione. Il disastro non sarebbe stato evitato, ma i danni si sarebbero potuti limitare.
In merito all’evento il Ministro dei Lavori Pubblici aprì un’inchiesta che portò a un doloroso processo, le cui tre fasi di giudizio si svolsero dal 25 novembre 1968 al 25 marzo 1971. Alla fine dei dibattimenti venne riconosciuta la responsabilità penale per omicidi colposi plurimi e per la prevedibilità di inondazione e di frana. Nel 1997 la Montedison, che aveva acquisito la società elettrica SADE, fu condannata a risarcire i comuni colpiti dalla catastrofe. Ancora nel 2000 fu stipulato un accordo tra ENEL, Montedison e Stato Italiano, che si divisero gli oneri del risarcimento danni al 33,3% ciascuno. Nel 1971, per consentire agli sfollati che avevano perso la casa a seguito del disastro di tornare alla normalità, venne fondato e costruito il comune di Vajont, presso Maniago. Le comunità devastate cercarono di riprendersi al meglio, iniziando con il ricostruire i centri abitati.
Il disastro del Vajont resta una delle pagine più nere della storia italiana. Una catastrofe che si poteva assolutamente evitare, innanzitutto approfondendo gli studi della zona prima della costruzione della diga, e poi allertando per tempo le popolazioni in merito alla frana. La speranza è che quanto accaduto possa servire da monito per enti pubblici e società private, che nella progettazione e costruzione di grandi opere dovrebbero innanzitutto tenere contro dell’incolumità dei cittadini, dando priorità all’interesse pubblico e non a quello di pochi.