L’assenza di gravità si comporta come una ”macchina del tempo”, rendendo più ”anziane” le cellule in pochi giorni terrestri
Per studiare gli effetti dell’invecchiamento e della sedentarietà prolungata, scienziati italiani dell’Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa hanno spedito campioni di cellule umane in orbita. L’assenza di gravità si comporta come una ”macchina del tempo”, rendendo più ”anziane” le cellule in pochi giorni terrestri e permettendo agli scienziati di compiere esperimenti di biologia molecolare sulle cellule, al rientro sulla terra, per indagare il funzionamento del corpo umano, sia in condizioni normali sia di malattia, per prevenire e per individuare terapie più efficaci contro patologie largamente diffuse come l’aterosclerosi e la pressione alta. ”Endothelial cells” è il progetto italiano di ”bio-medicina spaziale” coordinato dalla ricercatrice Debora Angeloni del Sant’Anna di Pisa, preparato nell’arco di anni e culminato con il lancio di queste cellule nello spazio, per caratterizzare l’effetto della microgravità sulla cellula endoteliale capillare. Il progetto è stato selezionato dalla European Space Agency (Esa) e ha ricevuto il finanziamento dell’Agenzia Spaziale Italiana (Asi). Con Debora Angeloni hanno collaborato alla preparazione del lancio in orbita Ivana Barravecchia, Francesca Scebba, Olga V. Pyankova, Chiara De Cesari dell’Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Tra gli organi che più risentono degli effetti della permanenza nello spazio, l’endotelio – insieme eterogeneo delle cellule che rivestono dall’interno i vasi sanguigni – risulta particolarmente sensibile alle variazioni della gravità. L’endotelio può recepire e rispondere a molti stimoli che provengono dall’esterno e dall’interno del corpo e, quando è danneggiato, si avviano processi di malattia importanti come l’aterosclerosi, l’ipertensione (pressione alta), trombosi, riscontrabili con elevata frequenza nella popolazione. Lo spazio può aiutare gli scienziati nella prevenzione e nella cura delle malattie ”terrestri”. Le cellule spedite nello spazio nell’ambito del progetto ”Endothelial cells”, sono rientrate alle 2:51 am (ora italiana) di sabato 12 settembre – la notizia è stata diffusa soltanto oggi – nella steppa del Kazakhstan, di ritorno dalla Stazione Spaziale Internazionale, a bordo della Soyuz TMA 16M, Mission 42S. Le cellule erano partite, con un lancio perfetto, dal Cosmodromo di Baikonur alle 6:37 am (ora italiana) del 2 settembre, a bordo della Soyuz TMA 18M, Mission 44S. Per condurre l’esperimento, le cellule, utilizzate come modello semplificato dell’endotelio capillare umano, sono cresciute e si sono moltiplicate nello spazio all’interno di microlaboratori progettati e realizzati ad hoc da Kayser Italia, azienda italiana con sede a Livorno, leader nella produzione di hardware e software per esperimenti biologici nello spazio. Per il successo dell’esperimento è stata fondamentale la collaborazione con Energia, ente russo leader mondiale nel campo del volo spaziale umano. In accordo con Esa e Nasa, Energia ha gestito l’integrazione sui voli Soyuz dell’esperimento che, a bordo della Stazione spaziale internazionale, è stato seguito dall’astronauta Esa Andreas Mogensen e dall’astronauta giapponese Kimiya Yui. ”L’esplorazione umana dello spazio è per sua natura un’azione collettiva – sottolinea Debora Angeloni, che coglie l’occasione per ringraziare l’Istituto di fisiologia clinica del Cnr di Pisa – e, da un punto di vista biomedico, è chiaro che essa pone enormi limiti e difficoltà ma proprio per queste ragioni costituisce una importantissima ‘scuola’ per imparare di più sul funzionamento del nostro corpo”. “Nello spazio gli astronauti sono soggetti ad un invecchiamento accelerato ma reversibile, che simula in maniera fedele ciò che avviene sulla terra in tempi molto più lunghi e in modo certamente non reversibile. Sui campioni di cellule rientrate in ottimo stato dallo spazio da ora in avanti sarà condotta un’ampia serie di analisi di biologia molecolare – spiega Angeloni – L’obiettivo a breve termine della ricerca è caratterizzare i meccanismi molecolari attivati dalla permanenza nello spazio, quegli stessi che probabilmente sono attivati anche dall’invecchiamento fisiologico dell’endotelio”. “L’obiettivo a lungo termine – conclude la scienziata – è mettere a punto metodi per la prevenzione e per la riabilitazione utili non soltanto per gli equipaggi spaziali, soprattutto per quelli impiegati in missioni esplorative di lunga durata, ad esempio il progetto Marte, ma anche per un grande numero di pazienti sulla terra”.