“Te la Candelora la vernata è ssuta fora, ma ci la sai cuntare nc’e’ nu bbonu quarantale” (Della Candelora l’inverno è già passato, ma se fai bene i calcoli, ci sono ancora ben quaranta giorni altri). In questa saggezza popolare, in passato, i contadini di Tuglie, in provincia di Lecce, racchiudevano quello che realmente rappresenta la festa della Candelora: l’inizio di quel breve periodo che è l’anticamera della primavera, con temperature miti e sempre più scarse precipitazioni.
Ma le origini della Candelora sono antichissime e vanno ricercate nelle antiche celebrazioni italiche, legate soprattutto alle divinità romane. Nella Roma antica, infatti, il mese di febbraio era contrassegnato dal caos, dal rimescolamento tra vecchio e nuovo e non è un caso che ancora oggi sia legato alla festa celebrativa per eccellenza della confusione e del ribaltamento delle regole: il Carnevale. Secondo Macrobio, la parola latina “februarius” era connessa ai riti purificatori. “Februare”, infatti, significa “purificare, espiare”. Numa Pompilio aveva dedicato questo periodo al dio Februus: in questi giorni andava purificata la città e andavano onorati i defunti e gli appartenenti al mondo “infero”.
Nella februatio, la purificazione della città, le donne giravano per le strade con ceri e fiaccole accese, simbolo di luce. Ben presto, però, prevalsero i significati legati all’aspetto luminoso dell’imminente primavera, in corrispondenza con i riti propiziatori agresti per l’inaugurazione del nuovo anno agricolo. I Lupercali o Lupercalia si festeggiavano alle Idi di febbraio, il 15; per i Romani ultimo mese dell’anno, e servivano a purificarsi prima dell’avvento dell’anno nuovo, propiziandone la fertilità. La cerimonia era legata alla famosa Lupa che allattò Romolo e Remo e vedeva due giovani patrizi (i luperci) correre forsennatamente, dopo un rito purificatorio, nudi, colpendo nella corsa, con delle corregge di pelle di capra, le donne astanti per assicurar loro la fertilità.Questo rito simbolico di purificazione e fecondazione, in realtà, era pre-romano, risalente al regno del dio Fauno, simboleggiato dal caprone (hircus), con un diverso significato: la cerimonia dei due giovani nobili segnava, ritualmente, il passaggio dall’infanzia alla giovinezza e la loro corsa frenetica, nudi e cinti di pelle di capra, simboleggiava la fine dell’anno e la sua rifondazione; insomma, il periodo in cui tutto si rinnovava. Con l’avvento dei Sabini, che avevano come animale simbolico il lupo (hirpus), forse per una sorta di omonimia o per assonanza simbolica, i due animali (caprone e lupo) fusero i significati.
Nelle feste che cadevano la seconda quindicina di gennaio, però, era ricordata anche Iunio Februata, (Giunone Purificata) e Iunio Sospita (Giunone Salvatrice) in quanto Giunone era protettrice dei parti e delle fecondità e le celebrazioni a lei dedicate assicuravano non solo la fertilità alle donne, ma anche la salute e la forza per portare a termine le gravidanze. Giunone era anche detta Lucina, ossia “dea della luce”. La Chiesa occidentale, nel VII secolo, adattò al 2 febbraio una festa che era celebrata in Oriente fin dal IV secolo: la presentazione al Tempio del Signore. La presentazione del Neonato al tempio e la conseguente purificazione della Madre, dovevano avvenire 40 giorni dopo il parto poiché quello era il periodo dopo il parto di un maschio durante il quale, per gli Ebrei, una donna era considerata impura (Levitico, 12,2-4) ed i giorni diventavano 80 per le figlie femmine. Il rito della purificazione al Tempio fu fortemente mantenuto nella tradizione cattolica contadina: fino agli inizi del Novecento, infatti, le partorienti rimanevano in “quarantena” dopo il parto, sino al battesimo del figlio. In questo periodo post-partum la contadina rispettava una serie di restrizioni, con delle varianti da zona a zona, che contemplavano: un vitto leggero, l’astensione dalla carne, dai lavori pesanti, il divieto di uscire di casa. Se solo la donna andava in cortile per stendere il bucato, doveva coprirsi la testa,tenendo in mano la corona del rosario e al battesimo, per completare la purificazione, era necessaria la benedizione con la candela in mano.
La Festa della presentazione di Gesù è detta anche Festa delle Luci. Proprio al tempio, Maria e Giuseppe incontrano Simeone e Anna e Simeone, nel suo celebre “Cantico” riportato dal Vangelo di Luca, definisce Gesù “luce per illuminare le genti e gloria del suo popolo Israele” (cfr Lc 2,30-32). Il 1 febbraio per i Celti era Imbolc, detta anche Oimelc o Imbolg, una delle quattro feste del fuoco poiché l’accensione rituale di fuochi e falò ne costituivano una caratteristica essenziale. Il fuoco, però, era considerato sotto il suo aspetto di luce. Questo, infatti, era il periodo della luce crescente.
Imbolc pare derivare da Imb-folc, ossia “grande pioggia”; e questa data viene chiamata in molti paesi celtici anche “Festa della pioggia”, forse per via dei mutamenti climatici stagionali e per l’idea di una lustrazione purificatrice dalle impurità invernali. Oimelc, invece, significa “lattazione delle pecore”, mentre Imbolg vorrebbe dire ‘nel sacco” inteso nel senso di “nel grembo”, con due significati: uno simbolico, del risveglio della Natura nel grembo della Madre Terra, ed uno, più materiale, riferito agli agnelli, nuova fonte di cibo e di ricchezza che la Natura e i previdenti allevatori avrebbero fatto nascere all’inizio della buona stagione. L’allattamento degli agnelli, infatti, assicurava un rifornimento provvidenziale di proteine. Il nuovo latte, il burro, il formaggio costituivano spesso la differenza tra la vita e la morte per bambini e anziani nei freddi giorni di febbraio.