Il 2015 è stato senza ombra di dubbio l’anno di Plutone e della sonda New Horizons. Il mondo ha assaporato nuovamente l’emozione dell’esplorazione dei confini del sistema solare a trent’anni di distanza dalle epiche imprese interplanetarie delle sonde Voyager 1 e Voyager 2. I “nuovi orizzonti” esplorati per la prima volta nella storia sono le colonne d’Ercole del nostro sistema planetario, là dove Plutone e le sue 5 lune danzano attorno al Sole.
Viaggiando alla velocità record di 60.000 km/h la sonda ha attraversato il sistema di Plutone il 14 luglio scorso con straordinaria precisione e puntualità, dopo 9 anni e mezzo di viaggio ed oltre 6 miliardi di km percorsi, raccogliendo una mole di dati e immagini che faranno lavorare gli astronomi per i prossimi decenni. Mentre leggete questo articolo la sonda si trova a oltre 5 miliardi e 300 milioni di km dal nostro pianeta: una distanza tale che le foto trasmesse alla Terra dalla sonda (che viaggiano alla velocità della luce sotto forma di onde radio) impiegano circa 5 ore a raggiungerci!
Queste immagini stanno mostrando agli astronomi un pianeta estremamente più complesso di quanto immaginato, dalla geologia attiva, con processi e strutture inesistenti sulla Terra.
In questi giorni si stanno analizzando le ultimissime immagini inviate dalla sonda, scattate a soli 12 minuti dallo storico flyby e a 16.000 km di distanza dalla superficie di Plutone.
Sulla superficie di Plutone, nella parte occidentale dell’area a forma di cuore denominata Tombaugh Regio, si estende la Sputnik Planum: una distesa pianeggiante di azoto ghiacciato, geologicamente giovane e ricca di strutture che rappresentano ancora dei veri e propri misteri per geologi e planetologi.
Osservando le foto ad altissima risoluzione appena giunte a Terra, l’attenzione del team di New Horizons è stata subito catturata da quelle che sono state battezzate “colline galleggianti”, presenti in vaste aree della regione. Si tratta di enormi blocchi di ghiaccio d’acqua che sembrano galleggiare su uno strato di ghiaccio di azoto e che proverrebbero da catene montuose presenti ai margini della distesa. Secondo l’ipotesi più accreditata, una volta distaccatisi dal luogo d’origine, tali blocchi andrebbero alla deriva all’interno dello Sputnik Planum e, soggetti ai moti convettivi e alle correnti glaciali, verrebbero spinti ai suoi confini creando ammassi e distese ampie decine di chilometri. Tutto ciò è possibile poichè il ghiaccio d’acqua è più leggero del ghiaccio d’azoto e tende quindi a risalire verso l’alto.
Il comportamento di queste enormi masse di ghiaccio alla deriva appare simile a quello degli iceberg terrestri, ma in realtà bisogna tenere presente che su questo gelido mondo tutto è a circa -200°C: ghiacci di diverse densità si mescolano e si riorganizzano esattamente come fanno le masse d’acqua nelle correnti degli oceani terrestri.
Una struttura ampia circa 60 km posta nei pressi del limite settentrionale dello Sputnik Planum, composta da questi enormi iceberg arenatisi ed accumulatisi dopo aver percorso la distesa di azoto ghiacciato, è stata battezzata ufficialmente dal team della New Horizons “Challenger Colles” in onore dell’equipaggio dello Space Shuttle Challenger esploso tragicamente poco dopo il lancio esattamente 30 anni fa.