Scienziati italiani dell’università di Trento, insieme a colleghi americani della Weill Cornell Medicine University di New York e del Dana Farber Cancer Institue di Boston, hanno scoperto la ‘corazza’ che rende invulnerabile il cancro allo prostata quando si trova già allo stadio avanzato. Lo studio, pubblicato su ‘Nature Medicine‘, spiega perché e come a un certo punto della terapia alcuni malati diventano resistenti ai trattamenti: il tumore (adenocarcinoma) cambia volto e si trasforma in uno più ‘cattivo’ (neuroendocrino). La scoperta apre a nuove possibilità terapeutiche, ma anche diagnostiche attraverso un test del sangue ora allo studio. Principale causa di morte per tumore nella popolazione maschile, il cancro alla prostata colpisce oggi in Italia un uomo su 16. E l’incidenza della malattia è in aumento con oltre 36 mila nuovi casi registrati ogni anno e un tasso di sopravvivenza intorno al 70% a 5 anni dalla diagnosi (dati Airc 2012).
Per trattare pazienti con tumore allo stadio avanzato – ricordano gli esperti – oggi si impiegano solitamente terapie farmacologiche che attaccano l’ormone androgeno o il suo recettore. Benché inizialmente efficaci, questi trattamenti a lungo andare si rivelano spesso inutili: alcuni pazienti sviluppano una resistenza alla cura, in seguito alla trasformazione da adenocarcinoma e tumore neuroendocrino. Per gli autori il nuovo lavoro rappresenta una svolta in questo senso. I ricercatori hanno messo in campo le più avanzate tecnologie di sequenziamento del Dna, dell’Rna e dello stato biochimico delle sequenze per esaminare il fenomeno della resistenza ai farmaci in un ampio gruppo di più di 100 pazienti dell’Englander Institute for Precision Medicine. “Abbiamo utilizzato la genomica per comprendere meglio come si sviluppi il cancro neuroendocrino alla prostata – afferma Himisha Beltran, assistant professor of medicine alla Weill Cornell Medicine University e responsabile delle attività cliniche presso il Caryl and Israel Englander Institute for Precision Medicine – Questi tumori sembrano originarsi per evoluzione clonale da un tipico cancro alla prostata”. “Per sfuggire al successo del trattamento farmacologico, un tumore letteralmente si trasforma in un altro“, sottolinea Francesca Demichelis, docente al Cibio dell’ateneo trentino che ha diretto lo studio. “L’adenocarcinoma evolve in un tumore neuroendocrino e il modo in cui questa evoluzione avviene ci ha colpito. Alcune cellule cambiano natura e prendono il sopravvento sulle altre – riferisce la studiosa – Al microscopio appaiono diverse dalle altre per forma e per dimensione. Il loro contento è marcatamente diverso. E’ come se si fossero costruite una sorta di corazza e nuove modalità di sostentamento per sopravvivere. Imparano cioè a fare a meno del loro sostentamento primario precedente. In sostanza, è come se cambiassero dieta per difendersi. Per frenarle, l’unico modo è interrompere il trattamento e cambiare protocollo farmacologico. I dati che abbiamo generato possono aiutare l’identificazione di molecole in grado di attaccare queste cellule finora intoccabili“. “Questa scoperta ci rende orgogliosi – commenta il direttore del Cibio, Alessandro Quattrone – Ci racconta quanto può essere difficile riuscire a curare una malattia trasformista come il tumore. Ci fa capire quanto siano concreti i vantaggi di scommettere sullo sviluppo della medicina di precisione, alimentata da competenze diverse: biologia, medicina, fisica, informatica“.