L’hanno chiamata “maledizione del Cermis“. E un motivo ci sarà. Il Cermis, o meglio la sua funivia, ha visto ben due violente tragedie consumarsi nel giro di poco più di vent’anni. Tutti ricordiamo infatti quanto avvenuto il 3 febbraio 1998 nei pressi di Cavalese, località sciistica delle Dolomiti a 40 km nord-est di Trento: un aereo militare statunitense, violando i regolamenti e volando a una quota troppo bassa, tranciò il cavo della funivia del Cermis, in Val di Fiemme, facendo precipitare la cabina e uccidendo i 20 occupanti. Ma forse non tutti ricordano che un’altra tragedia, sempre nello stesso luogo e per un incidente dovuto alla negligenza, si era verificata già 22 anni prima.
Era une delle ultime corse della giornata, di quel 9 marzo 1976, quando la cabina partita dall’Alpe del Cermis con a bordo 43 persone, di cui 21 turisti provenienti da Amburgo, 11 italiani, 7 austriaci, un francese, il manovratore e alcuni operai dell’impianto, si apprestò a scendere a valle. Giunti a una stazione intermedia gli sciatori dovevano scendere dalla cabina per salire su un’altra che li avrebbe riportati a destinazione. Ma proprio il secondo tratto fu fatale per i turisti: la fune portante dell’impianto cedette e il vagone si schiantò rovinosamente sulle pendici della montagna dopo un volo di circa 30 metri. Scivolò, rotolo e sbatté per almeno altri 100 metri e infine si fermò in un prato in località Salanzada. Il tutto durò pochi secondi, ma sufficienti a uccidere 42 persone. Ci fu solo una sopravvissuta: una 14enne milanese, Alessandra Piovesana, che se la cavò con entrambe le gambe fratturate, e riuscì a non morire solo perché protetta dai corpi degli altri sciatori. La sua testimonianza fu raccolta solo nel 1998, poco tempo dopo la seconda strage del Cermis: “Ebbi inizialmente la sensazione che la cabina andasse indietro, poi il senso di vuoto, la caduta. Svenni, ma tornai in me prima dell’arrivo dei soccorsi“. Alessandra è poi morta nel 2009, a soli 49 anni.
Le indagini per fare luce sulle cause della tragedia e sulle responsabilità, furono lunghe e difficili. Secondo quanto raccolto dai periti, la caduta della cabina venne provocata dal disinserimento dei circuiti automatici di sicurezza, messo in atto, a quanto pare, per velocizzare il trasporto dei passeggeri. La fune traente finì con l’accavallarsi sulla portante, causandone così il tranciamento e dunque la caduta del vagoncino di risalita. Per l’incidente la Cassazione ritenne unico responsabile il manovratore, Carlo Schweizer, risultato per altro privo di patente, e dunque condannato a tre anni di reclusione per disastro colposo. Secondo l’avvocato difensore Schweizer fece da capro espiatorio per responsabilità che in realtà dovevano essere imputate alla società di gestione degli impianti. In ogni caso Schweizer scontò solo nove mesi di carcere. “Sono stato abbandonato, sono ancora senza lavoro e vivo fra mille umiliazioni“, dichiarò ai giornalisti dopo un’altra sciagura, quella di Stava del luglio 1985. Quest’ultima si verificò sempre in val di Fiemme, e i morti questa volta furono 268, seppelliti dal fango dei bacini di decantazione della miniera di Prestavel. Anche Schweizer morì poco dopo la seconda tragedia del Cermis, ma riuscì ad assistere ai funerali delle venti vittime, rivivendo quanto accaduto 22 anni prima, quandò iniziò quella che fu definita “la maledizione del Cermis“.
“I 42 corpi erano a terra, in fila su dei teli, uno accanto all’altro, con gli infermieri e i medici che si chinavano e li ricomponevano. Era l’epoca delle prime tute da sci colorate, ma anche quelle più sgargianti in quel momento andavano smarrendo il colore, o almeno così mi sembrò, forse per l’emozione. I teli sotto erano macchiati di sangue“. Così i cronisti trentini dell’epoca parlarono della scena terribile che si trovarono di fronte. Tra questi Luigi Sardi, ora 77 anni, che scriveva per il quotidiano locale Alto Adige. Le salme delle vittime erano in un corridoio dell’ospedale di Cavalese. “C’erano anche il procuratore, Mario Agostini, e il presidente della Giunta provinciale, Giorgio Grigolli – racconta – spersi, spaventati. All’ingresso invece si erano riuniti dei responsabili delle funivie e dei collaudatorie discutevano tra loro: quella funivia non poteva crollare. Il cavo portante, che si chiamava Ercole, era spesso 52 millimetri, composto di un sapiente intreccio di 148 fili in acciaio e canapa, pesante 58 tonnellate e lungo 2.340 metri. Lo diceva una targa alla stazione di partenza. Quel cavo era capace di portare 32 tonnellate, ma la cabina cadde da 50 metri d’altezza sul prato innevato, dopo che la fune traente si accavallò su quella portante, tranciandola. Avvenne dopo che il manovratore Carlo Schweizer, senza patente, alla stazione di mezza via al Dos dei Laresi, ebbe l’ordine di farla ripartire, dopo che si era bloccata. Eseguì ed escluse il circuito di sicurezza. Usò una chiave che non doveva essere toccata. Invece l’usura del metallo ne dimostrava l’abuso, come si legge nella sentenza del tribunale di Trento del 29 dicembre 1976” che Sardi cita nel suo libro ‘I due Cermis‘ del 2002, Curcu e Genovese. “Il manovratore senza patente – racconta di Schweizer il cronista – mi chiamava al giornale ogni giorno e mi ripeteva sempre la sequenza dei fatti. Quando lo incontravo sul posto, lo trovavo sempre più logoro nel vestito e più smunto nel viso. Lo rividi anche anni dopo, alla seconda tragedia del Cermis. Faticavo a stringergli la mano, perché pensavo al suo dito che aveva premuto il pulsante che aveva escluso la sicurezza e causato tutti quei morti”.
“Dopo l’ospedale quella sera del 9 marzo del 1976 – aggiunge Sardi – corremmo a piedi a vedere il punto dove la cabina era crollata. Non era vicino, ma quand’è così ci vai comunque. Era buio, con la sola luce delle fotoelettriche di pompieri, ambulanze e carabinieri. Ma ormai le sirene erano tutte spente, segno che nulla più c’era da fare. La cabina era sfasciata sulla neve e vicino c’erano rottami di sci e sangue. Il giorno dopo, col Lagorai illuminato da un sole straordinario, salii sulla montagna fino al punto dov’era caduto il cavo: aveva dei refoli azzurrini dov’era stato tagliato, come bruciato“. “Chi era in paese al momento del crollo – racconta in base alle testimonianze raccolte – descrisse un rumore terribile, come di un terremoto, quando a valle della funivia caddero i contrappesi. Poi ci fu l’arrivo dei parenti delle vittime e la messa funebre con le 42 bare tra la folla silenziosa e singhiozzante. E la gente della valle con una gran pena nel cuore, insieme alla consapevolezza che quella tragedia avrebbe segnato un duro colpo per il nome di quella località, a interrogarsi su cosa fare. E la prima idea fu quella di rifare la funivia: quella che nel 1998 un aereo militare degli Usa si riporto via” conclude riferendosi alla seconda tragedia del Cermis. “Erano gli anni del boom dello sci e le piste erano affollatissime. Io al Cermis andavo ogni mercoledì, nel mio giorno di riposo, perché era la stazione più bella, nuova, accanto a una cittadina come Cavalese, comoda da Trento“.