Trivelle, ANRA: “Il referendum apre a nuovi rischi”

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Manca meno di un mese al prossimo Referendum del 17 di aprile, in cui gli italiani saranno chiamati ad esprimersi nel merito dell’opportunità o meno di abrogare la norma sulla durata delle autorizzazioni a esplorazioni e trivellazioni dei giacimenti già rilasciate. Una consultazione promossa da 9 Regioni (Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise, che rappresentano anche il comitato ufficiale per il “SI”), che di fatto non risolve il vero problema della gestione dei rischi ambientali e idrogeologici nel nostro Paese.

Si tratta dell’ennesima occasione persa dal Paese, perché si utilizza una consultazione popolare e democratica come l’istituto referendario per provare a risolvere una questione puntuale di negoziazione di sfere di influenza tra Stato e Regioni – commenta Alessandro De Felice, Presidente di ANRA. “In particolare, le Regioni che hanno promosso il referendum sembrano voler far leva sullo stesso per acquisire potere in materia energetica e non solo, visto che è in discussione una riforma costituzionale che ridarebbe il monopolio decisionale al Governo. Se vincessero i «SI» migliaia di posti di lavoro andranno persi, in quanto sono 105 le piattaforme messe in discussione dal referendum, il che significa almeno 6.000 posti in fumo solo a Ravenna. Inoltre, l’Italia dovrebbe importare quantità maggiori di risorse dall’estero, dove vengono prodotte secondo gli stessi metodi oggetto della critica e del quesito referendario. Saremmo costretti a chiudere i rubinetti delle piattaforme esistenti da un giorno all’altro, rinunciando a circa il 60-70% della produzione di gas nazionale (ovvero gas metano, una fonte energetica considerata strategica per la transizione verso modelli più sostenibili, non petrolio). Non potendo da un giorno all’altro sopperire a questo fabbisogno con le fonti rinnovabili, il tutto si tradurrebbe in maggiori importazioni ed incremento di traffico navale (navi gasiere e petroliere) nei nostri mari, con conseguente inquinamento dei mari e paradossalmente aumentando così a dismisura il rischio ambientale rispetto a quello rappresentato dalla produzione delle piattaforme. Probabilmente i promotori del Referendum hanno già dimenticato quanto occorso nel 1991 all’indomani dell’affondamento della HAVEN dinanzi alle coste del porto di Genova, con i conseguenti rischi di natura ambientale che negli anni abbiamo visto accadere anche in altre aree del globo”.

Venendo al quesito referendario, l’obiettivo delle Regioni proponenti è quello di impedire alle società petrolifere di cercare ed estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia marine dalle coste italiane senza limiti di tempo. Nonostante già oggi le società petrolifere non possano più richiedere per il futuro nuove concessioni per estrarre in mare entro le 12 miglia, per quanto riguarda le ricerche e le attività petrolifere già in corso una vittoria del «Sì» obbligherebbe le attività petrolifere a cessare progressivamente secondo la scadenza “naturale” fissata originariamente al momento del rilascio delle concessioni.

Invece, in caso di vittoria del “No” (o di mancato raggiungimento del quorum), le ricerche e le attività petrolifere già in corso non avrebbero scadenza certa, ma proseguirebbero fino a esaurimento del giacimento. Va ricordato che le piattaforme in oggetto dovrebbero comunque ottenere il rinnovo delle concessioni, che non è automatico. Si chiede, quindi, di continuare ad estrarre idrocarburi laddove già si fa con sicurezza e rispetto dell’ambiente, anche se naturalmente con alcuni rischi. A tal proposito va ricordato che in Italia si estrae seguendo norme rigide ed elevatissimi standard qualitativi fra i più avanzati a livello mondale. Non a caso le aziende italiane operanti nella fornitura ed installazione di piattaforme e componentistiche sono i leader globali.

Va anche osservato che nel 2014 il fabbisogno nazionale di petrolio veniva coperto per il 10% dalla produzione nazionale (prevalentemente estratto a terra e non in mare). Per quanto riguarda il Gas Naturale, nonostante la riduzione, nel 2014 la produzione nazionale copriva 7,1 miliardi di metri cubi (quando le importazioni erano di 55,8 miliardi). Se è vero dunque che l’Italia dipende già enormemente dalle importazioni (un motivo in più per costruirsi maggiori spazi di indipendenza, non per smantellare quel poco che c’è), è vero anche che l’Italia è un importante esportatore di petrolio. Il nostro paese, infatti, è secondo solo alla Germania, in Europa, in quanto a capacità di raffinazione del petrolio greggio.

In realtà le amministrazioni centrale e locali dovrebbero avviare e promuovere una seria politica di gestione dei rischi ambientali e idrogeologici, che sono, purtroppo, causa di migliaia di morti e dispersi negli anni, oltre che di miliardi di danni a industrie, abitazioni e strutture civili – continua Alessandro De Felice – Ogni autunno rileviamo come il nostro Paese sia sempre più fragile sotto il profilo idrogeologico e vi sia una scarsissima capacità di gestire fenomeni naturali, purtroppo prevedibili nella loro ricorrenza. Per le istituzioni che ci governano, dovrebbe essere al primo posto la cura e stretta sorveglianza di ponti, strade, infrastrutture, greti di torrenti e fiumi, troppo spesso interrati, che in queste tragiche occasioni significherebbero anche vite umane che non si perdono su terrapieni insicuri o su vie con poca manutenzione. Peraltro, secondo i dati resi noti dal Ministero dell’Ambiente, il 9.8% della superficie del nostro Paese è ad alta criticità idrogeologica. Qui vivono 5,8 milioni di persone e sorgono 1,2 milioni di edifici. Per chi come noi quotidianamente deve gestire i rischi per professione, desta grande amarezza la scarsa propensione nell’essere pronti a reggere l’urto di eventi atmosferici ricorrenti e prevedibili”.

ANRA ha più volte osservato come l’incuria nella tutela del nostro territorio abbia fatto sì che tra il 1965 e il 2014 abbiano perso la vita quasi 2.000 persone a causa di frane (1.279) e inondazioni (717), circa 40 l’anno, oltre a 66 dispersi, 2.550 feriti e oltre 434.000 sfollati e senzatetto. E nel solo anno 2015 sono state rilevate 106 frane e 33 inondazioni, che hanno causato in Italia 18 morti, 25 feriti e oltre 3.500 tra sfollati e senzatetto (fonte: IRPI-CNR, gennaio 2016), con danni che l’Ordine dei Geologi stima in ben 3,5 miliardi all’anno.

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