Nella sua ‘Breve storia dell’ambiente in Italia’, edita da Il Mulino, Gabriella Corona dell’Istituto di studi sulle società del Mediterraneo del Consiglio nazionale delle ricerche di Napoli (Issm-Cnr) racconta i mutamenti occorsi nel nostro Paese dall’unificazione nazionale a oggi. “A partire dalla metà dell’800 l’Italia inizia ad affrontare le problematiche ambientali secondo una visione unitaria e temi come difesa del suolo, risanamento delle pendici montane, bonifiche delle pianure e protezione delle bellezze naturali ricevono attenzione da parte della politica e delle istituzioni pubbliche”, spiega Corona. “La prima emergenza, soprattutto nel Mezzogiorno, è il disboscamento delle zone montuose, che incrementa il fenomeno erosivo, il trasporto di detriti e il ristagno d’acqua soprattutto alle foci dei fiumi. Tra fine ‘800 e inizio ‘900 le aree boschive sono diminuite fino al 30% per lasciare spazio ad aree coltivabili, un trend poi diminuito fino alla metà del XX secolo quando le opere di rimboschimento hanno riequilibrato e invertito la situazione, tanto che la superficie boschiva attuale è più del doppio di quella dei primi anni del secolo scorso. Nonostante ciò, anche nell’Italia del secondo dopoguerra la situazione idrogeologica è talmente drammatica che ancora oggi circa l’82% dei comuni italiani è a rischio frane e alluvioni”.
La seconda problematica ambientale ‘post-unitaria’ fu ovviamente quella dell’impatto conseguente all’industrializzazione del paese: “All’inizio del ‘900 il 20% delle industrie italiane era considerato insalubre e la percezione è sicuramente sottostimata. Lo smaltimento di fumi e fluidi tossici avveniva confidando nell’auto-depurazione dell’aria o nella diluizione dell’acqua, inoltre si riteneva che una barriera fisica come un muro, una ciminiera o un pozzo bastasse per mettere in sicurezza scarti nocivi e tossici”, prosegue la ricercatrice Issm-Cnr. “La sottovalutazione proseguì al punto che nel 1999 si individuarono 57 siti inquinati di interesse nazionale, soprattutto ex aree industriali come Porto Marghera, Gela, Taranto o Orbetello”.
Terzo fenomeno socio-economico che ha inciso fortemente sul piano ambientale, il consumo di suolo provocato dall’urbanizzazione e dalla dispersione abitativa. “Per stare solo ai dati più recenti, tra il 1990 e il 2006 i cambiamenti di uso del territorio hanno interessato oltre 550 mila ettari, una estensione pari circa alla Liguria”, prosegue Corona. “L’incremento del consumo di suolo destinato ad urbanizzazioni è stato del 18% in montagna, del 44% nelle aree collinari, dove si aggiunge il 40% di forestazioni, e dell’88% in pianura. Un processo che ha colpito in maniera intensa anche i litorali: nel saggio di Fulco Pratesi si ricorda uno studio del Wwf realizzato tra il 1995 e il 1997 secondo cui il 58% delle coste italiane risultava interessato da occupazioni intensive e da edificato, il 13% da costruzioni sparse mentre solo il 29% era ancora libero anche se parzialmente occupato da campeggi, serre e costruzioni per l’itticoltura”.
Nei decenni scorsi un modello fondato esclusivamente sul consumismo ha prodotto una crescita indifferente ai problemi del territorio, mentre proprio uno sviluppo rispettoso dell’ambiente è la miglior garanzia degli interessi anche economici. “Durante il cosiddetto boom e fino agli anni ’70 del secolo scorso, in particolare, l’economia e soprattutto l’industria chimica, petrolchimica e la siderurgia si sono sviluppate senza tenere conto dell’impatto sugli equilibri eco-sistemici e senza valutare i costi del ‘debito ambientale’ che sarebbero ricaduti sulle generazioni successive, condizionando fortemente l’operato dei governi e del legislatore”, conclude l’autrice della ‘Breve storia dell’ambiente in Italia’. “Le conseguenze si sarebbero fatte però sentire nei decenni successivi. La storia ci insegna che l’uso distruttivo delle risorse naturali e l’alterazione degli equilibri ecologici rappresentano un costo umano, economico e sanitario gigantesco per il Paese. Bisogna porre le problematiche ambientali in primo piano nell’agenda politica e investire in una operazione culturale di ampio respiro che riguardi scuole, università, enti di ricerca e di formazione, in un’opera di riconoscimento del valore dell’ambiente e delle sue risorse”.