Fecondazione: “anche l’embrione con difetti genetici ha la sua dignità”

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La dignità dell’embrione, quale entità contenente in sé il principio della vita” costituisce “un valore di rilievo costituzionale” e “la sua tutela non è suscettibile di affievolimento per la sola circostanza di risultare affetto da malformazioni genetiche, pur essendo assoggettabile a bilanciamento con altri valori costituzionali, specie al fine di garantire il soddisfacimento delle esigenze della procreazione e di quell e della Salute della donna“. E’ quanto esprime la Corte costituzionale nella sentenza 84/2016 depositata oggi, con le motivazioni per cui ha bocciato la richiesta di abolire il divieto di ricerca scientifica sugli embrioni non utilizzati nei cicli di fecondazione assistita.

Con questa sentenza la Consulta ha dichiarato inammissibili le questioni avanzate dal Tribunale di Firenze che aveva dubitato della costituzionalità di alcuni articoli della legge 40 del 2004. Si tratta del procedimento intentato da una coppia di coniugi che si era sottoposta a un trattamento di procreazione medicalmente assistita, e che avrebbe voluto destinare ad attività medico-diagnostiche e di ricerca scientifica – connesse alla patologia da cui la stessa coppia è affetta – 9 embrioni risultati ‘non impiantabili’, oltre a un ulteriore embrione trasferibile in utero ancorché di media qualità (tanto che la gravidanza conseguente al suo impianto non è andata a buon fine). La Corte costituzionale ha sottolineato come “la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo (caso Parrillo vs. Italia) avesse confermato tale principio, chiarendo, peraltro, che l’Italia non era l’unico Stato membro del Consiglio d’Europa a vietare la donazione di embrioni umani per destinarli alla ricerca scientifica, così ritenendo che il nostro Governo non avesse ecceduto l’ampio margine di discrezionalità di cui godeva“.

Fecondazione-assistitaLa tematica, secondo i giudici, dunque, “ha contenuti di così elevata discrezionalità che la sottraggono al sindacato di legittimità, riservandola all’area degli interventi che solo al legislatore competono, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che, su un tema così sensibile, apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale di cui è tenuto a farsi interprete“. Come avvenuto, evidenzia la Corte, in tutti quegli Stati europei che hanno adottato un approccio permissivo nei confronti della ricerca sulle cellule embrionali. Inoltre, sostengono i giudici, “un tale intervento non avrebbe uno sbocco obbligato, ma dovrebbe viceversa misurarsi con una serie di molteplici opzioni inevitabilmente riservate anch’esse al legislatore“, come la scelta “della utilizzazione, a fini di ricerca, dei soli embrioni affetti da malattia – e da quali malattie – ovvero anche di quelli scientificamente ‘non biopsabili’; la selezione degli obiettivi e delle specifiche finalità della ricerca suscettibili di giustificare il ‘sacrificio’ dell’embrione; l’eventualità e la determinazione della durata di un previo periodo di crioconservazione; l’opportunità o meno di un successivo interpello della coppia, o della donna, che ne verifichi la confermata volontà di abbandono dell’embrione e di sua destinazione alla sperimentazione; le cautele più idonee a evitare la ‘commercializzazione’ degli embrioni residui“.

Infine, sull’inammissibilità del ricorso contro la parte della legge in cui si prevede l’impossibilità di revoca del consenso al trattamento in seguito alla fecondazione dell’ovocita, la questione secondo i giudici “difettava il requisito della rilevanza, siccome prospettato in via meramente ipotetica dal momento che la genitrice aveva già accettato di farsi impiantare l’unico embrione sano e di procedere, quindi, nel trattamento di Pma (ancorché, poi, conclusosi con esito negativo)“. Lo stesso Tribunale di Firenze, ricorda infine la Corte, “ha dato atto del fatto che il divieto di revoca del consenso all’impianto è sprovvisto di sanzione per l’ipotesi di sua violazione e detto consenso sia comunque revocabile nei casi in cui il medico rilevi fondati rischi per la salute della donna nel procedere all’impianto degli embrioni prodotti“.

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