Il 17 aprile si avvicina: si fa sempre più infuocato il dibattito sulla questione ormai nota come “referendum trivelle“. Le tanto discusse trivelle, in realtà, sono semplicisticamente utilizzate come il simbolo di impianti ben più articolati e che si identificano nelle enormi piattaforme che costituiscono il quartier generale delle società petrolifere, le cui concessioni per proseguire le estrazioni sono il vero oggetto di discussione. Tra falsi miti utilizzati a scopo strumentale e dati invece reali, la questione ambientale è quella più citata da coloro che si battono strenuamente per il SI, tra cui in prima fila compaiono associazioni da sempre impegnate contro l’inquinamento e lo sfruttamento del mare e della terra. Non dimentichiamoci, infatti, che i pozzi petroliferi non sono soltanto quelli “offshore” (quelle appunto in mare, oggetto di referendum), ma anche quelle “onshore”, che si trovano sulla terraferma.
Sono controversi gli effetti che gli impianti di estrazione avrebbero sull’ambiente: se da una parte il fronte del NO sostiene l’inesistenza di rischi di disastri ambientali e di contaminazione delle zone prossime alle piattaforme, i dati raccolti in un recente rapporto di Greenpeace, richiesti al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (MATTM), confermerebbero il contrario. In primo luogo, è bene precisare che i monitoraggi sono stati effettuati dall’ISPRA (l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), una società commissionata dall’ENI (proprietaria di tutte le piattaforme esaminate). La documentazione raccolta, che fa riferimento agli anni 2012-2014 e si basa su un campione di 34 impianti, fa emergere un quadro piuttosto preoccupante: nella maggior parte dei sedimenti che si trovano nei pressi vi sono tracce di contaminazioni evidenti.
Almeno una o due sostanze pericolose superano i limiti imposti dalle norme comunitarie, tra queste metalli pesanti come cromo, nichel e piombo, e idrocarburi policiclici aromatici (IPA), canceogeni e in grado perfino di risalire la catena alimentare. Altra questione messa in luce dal rapporto è la mancanza di sanzioni rigorose verso chi supera i limiti imposti dalla legge. “Laddove esistono limiti di legge per la concentrazione di inquinanti, questi sono spesso superati dai sedimenti circostanti le trivelle. […] Non ci risultano però licenze ritirate, concessioni revocate o altre iniziative del Ministero dell’Ambiente atte a interrompere l’inquinamento evidenziato e/o a ripristinare la salubrità dei fondali. A cosa servono questi monitoraggi se non impongono adeguamenti e se non prevedono sanzioni?”, denuncia l’associazione. Il quadro che emerge dal rapporto è effettivamente allarmante: intorno alle piattaforme la presenza di sostanze chimiche pericolose raggiunge livelli elevati, superiori a quelli raccomandati. Da qui, l’accorato appello di chi della tutela dell’ambiente ha fatto una vera e propria battaglia. Un SI al “referendum trivelle” aiuterebbe a salvare quel che di più bello l’Italia possiede: il nostro mare.