Sigmund Freud la chiamava amnesia infantile, certo è che la ragione per cui non ricordiamo quasi nulla della nostra prima infanzia è ancora del tutto oscura.
Un recente articolo riportato sulla BCC nella sezione Future ha cercato di dare una nuova chiave di lettura dell’intricato fenomeno e sembra che stavolta la nuova ipotesi abbia proprio centrato il bersaglio e risolto le incertezze di molti esperti.
Già negli anni Ottanta si era affrontata la questione e si era giunti alla conclusione che quasi nessuno, almeno prima dell’età di sette anni, ricordasse episodi precisi della propria vita, pur sapendo che già all’età di tre anni e mezzo l’apprendimento dei bambini è in pieno scalpore.
Nel 2011 la psicologa Qi Wang della Cornell University, a seguito di una ricerca che ha visto l’attiva partecipazione di 256 studenti, alcuni americani e altri cinesi, ha rilevato che in generale gli studenti americani avevano ricordi della loro infanzia più lunghi, più dettagliati e molto più focalizzati su loro stessi, mentre quelli degli studenti cinesi erano più brevi e si limitavano ad alcuni fatti precisi.
Ancora più interessante è che in media i ricordi degli studenti cinesi cominciavano sei mesi dopo quelli degli studenti americani.
Secondo l’esperta questo sarebbe la dimostrazione tangibile che che la cultura in cui nasciamo influenzi il modo in cui da bambini iniziamo a ricordare la nostra vita.
Come se non bastasse, i ricercatori sono arrivati ad un’altra conclusione ancora più entusiasmante:Il record per l’età più bassa dei primi ricordi è quello dei Maori della Nuova Zelanda, che in media ricordano fatti avvenuti quando avevano due anni e mezzo.
Questo avverrebbe perchè nella loro cultura il passato riveste un’importanza fondamentale e questa ancoraggio alle proprie radici viene trasmesso sin dalla primissima infanzia.
Esiste poi un’altra teoria che prende in considerazione lo sviluppo fisico dei bambini. Già a partire dagli anni Cinquanta con riferimento al famoso caso del paziente noto con la sigla H.M. si è scoperto che la capacità di archiviare ricordi sta nell’ippocampo, una parte del cervello situata nel lobo temporale.
Henry Gustav Molaison, questo il suo vero nome, era un uomo che in seguito a un intervento chirurgico fatto per curare la sua epilessia, perse la capacità di memorizzare nuove cose, se non a breve termine.
Durante l’intervento gli furono esportati tre quarti di ippocampo e questo permise agli scienziati di studiarne le funzionalità. L’ippocampo continua a crescere nei primi anni di vita e sembra che i primi ricordi a lungo termine non si formino fino a quando il suo sviluppo non è completo, il che appunto spiegherebbe il perché dell’amnesia infantile.
Un altro aspetto interessante è quello estrapolato dalla tesi della psicologa californiana Elizabeth Loftus che durante i suoi studi ha iniziato a creare dei veri e propri finiti ricordi nelle menti di chi accettava di sottoporsi ai suoi test: un terzo dei partecipanti allo studio dichiarò di ricordarsi perfettamente gli episodi inventati dalla dottoressa che in realtà non successero mai, e pare che addirittura le persone tendano a fidarsi di più dei ricordi indotti da testimonianze altrui rispetto a quelli che ricordano autonomamente.