La retorica del Fertility Day: essere mamma non è semplice, per convincerci ci vuole molto di più

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Fertility Day. E’ un’espressione quasi ‘carina’ da pronunciare. Vengono in mente fiocchi rosa o azzurri, vestitini per neonati, coccole a non finire, emozione, primi sorrisi, prime pappe, prime parole. Viene in mente una famiglia nel senso più ‘focolaresco‘ del termine. Perché essere mamma, senza alcun dubbio, è una delle esperienze più meravigliose e complete che una donna possa fare. Questo nella teoria. Perché la pratica, oggi, è parecchio diversa.

Ormai sembrano quasi diventate domande retoriche quelle del tipo “come si fa senza un lavoro?“, “come si fa senza una casa?“, “come si fa senza potersi permettere una baby sitter?“, ma retoriche non lo sono per niente. Io sono una mamma e faccio uno dei mestieri più affascinanti e soddisfacenti che esistano (almeno per me), la giornalista. Ho un solo figlio, e quando io e mio marito abbiamo deciso che era arrivato il momento giusto per averlo non ci ho pensato molto, come del resto per tutte le scelte che ho fatto nella mia vita. La Meraviglia è arrivata e come ogni ‘mamma che si rispetti‘ mi sono occupata di lui fin dal primo momento. Gli ho dedicato la mia vita, nel vero senso della parola. Ho trascurato per mesi il mio lavoro, perché la priorità era lui.

Poi è arrivato il momento in cui ho ricominciato a lavorare, con un marito pendolare (e che per fortuna ha il tanto ambito posto fisso) che trascorre 12 ore al giorno fuori di casa. E solo lì ho capito davvero qual è l’esperienza completa dell’essere mamma. E mi riferisco in particolare ai sensi di colpa che ti attanagliano, perché la nostra società, benché non lo faccia ormai più apertamente, giudica e guarda con diffidenza la mamma che non accompagna il figlio all’asilo, o la mamma che non si ricorda il giorno in cui bisogna cambiare l’asciugamano che il bimbo utilizza a scuola, o ancora la mamma che non insegna al piccolo, con infinita pazienza, a mangiare sano e possibilmente biologico. Una serie di piccolezze, quasi invisibili ai più, ma che nel mondo di una mamma lavoratrice diventano la prova tangibile che non ti stai dedicando nel migliore dei modi a tuo figlio.

E quindi che fare? Nel mio caso, data la fortuna di svolgere un lavoro per lo più ‘computerizzato‘, ho scelto (e soprattutto ho avuto la possibilità) di lavorare da casa, con tutto ciò che ne consegue: computer quasi perennemente acceso; giocattoli sparsi dappertutto; il mio piccolo che mi chiede la merenda mentre sto intervistando un sismologo; dover lasciare il lavoro a metà per andare a prenderlo all’asilo; preparare la cena mentre scrivo quanti morti ci sono stati tra Amatrice, Accumoli e gli altri paesi colpiti dal terremoto, e via dicendo. Potrei andare avanti per ore, ma chi è mamma, lavoratrice o meno, sa cosa voglia dire occuparsi di una casa e di una famiglia e quanto tempo reale possa portare via, quando non si ha la possibilità di pagare qualcuno per farlo al proprio posto.

Fertility Day, dunque, è tutto questo. Fertility Day è una donna che DEVE fare figli perché la società ne ha bisogno, e che poi deve arrangiarsi, perché tanto è donna e questo è l’andazzo. Fertility Day è dare un ruolo ad ognuno secondo uno schema prestabilito, fuori dal quale si è “troppo moderni”, “troppo strani”, “troppo diversi”. E se invece nella tanto discussa e odiata campagna pubblicitaria avessero messo la foto di una mamma impegnata in tutte queste attività e avessero scritto: “tranquille, ci saremo noi ad aiutarvi“? In quel caso, e solo in quel caso, io ne avrei fatti altri tre di figli. Giuro. Ma allo stato (o Stato?) attuale, l’idea è quella di fermarsi a uno. Perché mi basta dover sostenere lo sguardo supplichevole del mio piccolino che a volte, quando sono presissima e concentrata sul computer, mi dice: “Mamma basta lavorare, gioca con me“.

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