Mirino puntato sull’Organizzazione mondiale della sanità, sotto accusa per avere collezionato “gravi fallimenti” nella risposta a diverse emergenze: dalle crisi sanitarie di Sri Lanka, Haiti e Sud Sudan alla pandemia di Ebola in Africa Occidentale, fino all’allarme super-tbc in Papua Nuova Guinea. Per evitare nuovi ‘flop’ una proposta arriva dalle pagine del ‘British Medical Journal Global Health’: “E’ giunta l’ora di esternalizzare funzioni chiave dell’Oms a organismi in una posizione migliore e più qualificata per eseguire il mandato” dell’ente ginevrino, scrivono Joel Negin, dell’università di Sydney in Australia, e Ranu Dhillon, di Harvard negli Usa. Fra gli ‘eredi naturali’ dell’agenzia Onu per la Salute, nell’articolo si citano ad esempio la Bll e Melinda Gates Foundation, la Banca Mondiale, il Fondo globale per Aids, tubercolosi e malaria. I due docenti mettono nero su bianco un’analisi che non fa sconti e che giunge a 70 anni esatti dalla nascita dell’Oms, sancita nel 1946. “Per decenni – osservano – i fallimenti dell’agenzia nel rispondere a crisi sanitarie globali hanno attirato critiche e richieste di riforma da parte di politici, governi e finanziatori indipendenti in tutto il mondo”. Soggetti che “contribuiscono per 3 quarti al budget annuale di 4 miliardi di dollari a disposizione” dell’agenzia. Ora toglierle potere è l’unica strada per salvarla, suona in sintesi la tesi degli autori: “L’approccio dell’outsourcing – sostengono – permetterebbe all’Organizzazione mondiale della sanità di mantenere la sua leadership globale e un compito di supervisione, e al contempo di avvalersi nella maniera più appropriata di esperienze esterne. Ciò farebbe dell’Oms un ente più snello e focalizzato, e aumenterebbe il contributo di altri attori”. Certo sarebbe una rivoluzione, ma “crediamo che una riforma simile sia essenziale – assicurano Negin e Dhillon – per un’azione sanitaria globale e per il futuro stesso dell’agenzia”. Fra le attività da esternalizzare ci sarebbero soprattutto quelle di tecniche sorveglianza e gli aiuti sul campo. I due accademici ritengono che aumentare i fondi destinati all’Oms non sia la via giusta per vincere le sfide della prevenzione di nuove emergenze sanitarie, della capacità di predirle e di rispondervi con successo. La strategia giusta da seguire per la riforma dell’ente è piuttosto quella di adattarlo alla nuova realtà. “Quando l’Organizzazione mondiale della sanità fu costituita – ricorda infatti Negin, direttore della School of Public Health dell’ateneo di Sydney – gli attori della sanità globale erano pochi, e la sua posizione unica consentiva all’agenzia di catalizzare sui problemi sanitari l’attenzione delle menti e delle competenze migliori a livello internazionale. Oggi invece il panorama sanitario mondiale si è fatto molto più complesso: un’arena in cui competono un gran numero di player e di organizzazioni multilaterali”. Di fronte a una situazione simile “abbiamo bisogno di soluzioni che si concentrino non solo su come l’Oms potrebbe rafforzare se stessa, bensì su come dovrebbe sfruttare tutto il know-how e le expertise del settore”, precisa il docente. Ecco perché l’agenzia dovrebbe “esternalizzare una serie delle sue funzioni ad altri soggetti che già vantano una leadership in materia – fa eco Dhillon – Questo permetterebbe all’ente delle Nazioni Unite di focalizzarsi su un piccolo numero di attività ‘core’ in cui è in grado di produrre reali vantaggi, e di coordinare o di orchestrare l’azione di altri attori nelle altre attività”. Gli autori fanno notare che lo statuto stesso dell’Oms enfatizza come funzioni dell’ente quelle di “coordinamento, collaborazione e promozione di alleanze” a beneficio della Salute pubblica. Ciò significa “esternalizzare le funzioni chiave”, insistono. In definitiva, per il bene del pianeta bisognerebbe da un lato “riposizionare l’agenzia in un ruolo di regolatore, regista, stanza di compensazione”. Dall’altro affidare l’operatività agli altri player, che a loro volta dovrebbero “riconsiderare le proprie relazioni” all’insegna di un’organizzazione non gerarchica, bensì basata su “accordi contrattuali che prevedano impegni reciprocamente vincolanti”.