Exomars, intervista al presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana: ecco cosa possiamo imparare dalla vicenda Schiaparelli

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L’esplorazione spaziale targata Europa al momento non può che avere “un ritmo diverso dagli americani”: l’Esa ha un budget quattro volte più basso della Nasa e i cinesi avanzano a una velocità che “sbalordisce tutti”, con il lancio di un satellite alla settimana. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: l’Europa lancia una missione per fare atterrare un lander su Marte che, tredici anni dopo il fallimento del primo, il Beagle 2, fallisce ancora una seconda volta.

E si prefigge di mandare un rover tra quattro anni – con questa missione Exomars che non è iniziata sotto i migliori auspici – quando gli Stati uniti ne hanno già inviati con successo tre negli ultimi vent’anni. Ora, se l’Europa vuole recuperare il gap nell’esplorazione spaziale rispetto a Stati Uniti e Cina “la grande sfida degli anni a venire è puntare sulle ricadute economiche dell’esplorazione spaziale”. Solo così si potranno recuperare le risorse che mancano. E’ chiaro il ragionamento del presidente dell’Agenzia spaziale italiana, Roberto Battiston. LaPresse lo ha raggiunto al telefono per capire cosa possiamo imparare dalla vicenda Schiaparelli.

“Come mai, ieri sera, in un primo tempo si è detto che erano arrivati segnali dal lander e poi invece è emerso che non era arrivato nulla?”

Battiston: “Si è chiarito che i due orbiter (i due satelliti Mars Express e Mro, uno europeo e l’altro americano, ndr) raccoglievano la portante ma non avevano decofificato il contenuto. L’unico che ha raccolto i dati, la ciccia insomma, era il Tgo (il satellite europeo che ha raggiunto Marte insieme allo Schiaparelli e che ora orbita intorno al pianeta, ndr). Ha raccolto in cinque minuti e mezzo 600 megabyte di dati, è quasi un film in dvd. Ci hanno messo tutta la notte per trasferirli a terra. Li ha comunicati a Esoc (il Centro europeo operazioni spaziali, ndr). Finalmente stamane abbiamo avuto una situazione più chiara”.

E cosa abbiamo capito da questi dati?

Battiston: “Che l’entrata nell’atmosfera è avvenuta correttamente, con un rallentamento da 20mila a 2mila chilometri orari. Si è staccato correttamente lo scudo termico, il paracadute si è aperto a una velocità di Mach 2, ha fatto quello che doveva fare rallentando il lander fino a 200 chilomentri all’ora. Poi si è staccato portando via la capocchia. Si sono accesi i retrorazzi. Infine, a poche centinaia di metri dalla meta, qualcosa non è andato per il verso giusto. Si sono spenti i razzi troppo presto. A questo punto aspettiamo di sapere qualcosa dall’Esa su questo ultimo pugno di secondi. Dopo sette mesi di viaggio, la parte più difficile era alle spalle. ma qualcosa è andato storto all’ultimo minuto e siamo inciampati”.

Le faccio ora una brutta domanda, ma è un tema che va chiarito. Nel 2003 l’Esa tentò di inviare un altro lander su Marte, il Beagle 2. Arrivò sul pianeta rosso il giorno di Natale e anche con quello si persero i contatti. Venne dato per disperso due mesi dopo, e fu ritrovato solo dopo altri dieci anni, nel 2014, da un satellite americano. Ora rischiamo di fare il bis. Non solo, ma l’esplorazione di Marte sembra una novità solo per gli europei. I russi mandarono il loro primo lander sul pianeta nel 1971, ai tempi della guerra fredda. Da allora ne inviarono diversi altri. Gli Usa spedirono su Marte il loro primo rover, cioè un mezzo con le ruote, nel 1996. Cioè venti anni fa. In tutto ne hanno mandati tre lassù. L’Esa sta progettando di inviare il suo primo rover tra quattro anni, e per riuscirci manda ora un lander come esperimento preliminare e l’ammartaggio fallisce. Come si spiega tutta questa differenza?

Battiston: “Possiamo vederla da tanti punti di vista. Il numero di missioni interplanetarie che fa l’Europa è uno su cinque o su sei rispetto alla Nasa. Il bilancio della Nasa è quattro volte quello dell’Esa. L’Esa si è formata ben dopo la Nasa. A fare Rosetta (la sonda lanciata nel 2004 verso la cometa Churyumov-Gerasimenko, missione esaurita a settembre di quest’anno, ndr) ci abbiamo messo quasi vent’anni. Se combiniamo tempi e finanziamenti, non possiamo che fare le cose a un ritmo diverso dagli americani”.

In un mondo in cui gli equilibri stanno cambiando, con la Cina che sta scalando rapidamente posizioni economiche e politiche nella gerarchia delle potenze mondiali, rimanere indietro nella corsa allo spazio non rischia di contribuire al declino europeo?

Battiston: “I cinesi si sono svegliati dopo, ma hanno investito un mare di risorse e il ritmo a cui stanno avanzando sbalordisce tutti. Lanciano un satellite alla settimana. L’Europa ha una qualità buona ma un ritmo diverso. E non siamo confrontabili alle dimensioni americane”.

Quindi come possiamo fare?

Battiston: “Il successo è un misto di due cose: opportunità e olio di gomito. Quindi servono le risorse. Pensiamo ai lanciatori, abbiamo avuto un predominio internazionale con Ariane e Vega (acronimo di Vettore europeo di generazione avanzata, ndr). E poi pensiamo a Plato (PLAnetary Transits and Oscillations of stars), Euclid (progetto per mappare la geometria dell’universo oscuro, ndr) e alla stessa Rosetta. Stiamo facendo piuttosto bene con le risorse assegnate”.

Ma potrebbe non bastare.

Battiston: “Ricordiamoci che siamo entrati in un momento storico in cui, ai soggetti finanziati dal pubblico, si stanno affiancando i privati. E’ una transizione che non potrà non interrogarci in Europa. Come Italia siamo impegnatissimi su questo fronte. Ad agosto il Governo ha approvato un piano che stanzia 350 milioni per le tecnologie spaziali e delle telecomunicazioni, con l’obiettivo di mobilitare 1,1 miliardi, grazie alle partnership pubblico-privato. La grande sfida degli anni a venire è puntare sulle ricadute economiche dell’esplorazione spaziale per attirare gli investimenti in un’ottica di collaborazione tra il pubblico e il privato. Solo così potremo farcela”.

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