Morire in un pronto soccorso con un tumore terminale: quando essere medici non basta, ma serve umanità

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La chiamano “malasanità“. E ne siamo circondati. Purtroppo spesso dipende dalla mancanza di strutture, personale, fondi. Insomma, tutti ‘argomenti’ sui quali è difficile prendersela con qualcuno in particolare, perché sono frutto di meccanismi burocratici così ingarbugliati, che venirne e capo per sbrogliare la matassa sarebbe praticamente impossibile. E dunque, quasi sempre, la colpa viene data a chi ‘detiene il potere’: ai politici, ai capi, ai dirigenti. E sovente, a onor del vero, è proprio così. Ma non sempre.

Il caso avvenuto a Roma ne è un esempio. Il padre di Patrizio Cairoli, giornalista di Askanews, è morto dopo ben 56 ore durante le quali è stato letteralmente ABBANDONATO nella corsia del pronto soccorso del San Camillo. Il San Camillo, badate bene, non un ospedaletto del sud Italia dimenticato da Dio. La lettera scritta da Patrizio al ministro Beatrice Lorenzin, la quale ha deciso ora di inviare degli ispettori nel noto nosocomio della Capitale, è struggente e amara, e suscita così tanta impotente rabbia, da diventare quasi impossibile da leggere tutta d’un fiato. Perché in questo caso non c’è mancanza di fondi, mancanza di personale o mancanza di strutture che tenga: non doveva accadere.

Un UOMO, un essere umano che ha vissuto probabilmente tutta la sua vita nel modo più dignitoso possibile, è stato privato dei suoi diritti, del suo orgoglio e del suo amor proprio, che sono stati calpestati come se fossero nulla. Perché, se è vero che i familiari hanno persino sentito dei medici dire “Quello è un destinato“, significa che la situazione era ben chiara, e chi doveva occuparsi di quell’UOMO sapeva bene che per lui sarebbero state le ultime ore di vita. Allora, senza facili moralismi e senza retorica, è possibile che non ci fosse una stanza, non ci fosse un paravento, non ci fosse un qualsiasi spazio adatto a quell’UOMO in fin di vita e alla sua famiglia atterrita dal dolore? E se anche così fosse, non si poteva adibire a dignitosa stanza un qualsiasi spazio dell’ospedale? Magari uno di quelli utilizzati da medici e infermieri per la pausa caffè, tanto per poche ore di vita che restavano a quell’UOMO, di certo i camici bianchi non ne avrebbero sentito la mancanza.

Uno dei punti fondamentali del moderno “giuramento di Ippocrate” dice: “Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’impegno che assumo, giuro di perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto professionale“. Ecco, per l’appunto. Forse qualcuno, in quell’ospedale, non ha letto questo passaggio. Perché lo stipendio da medico e da infermiere, a fine mese, è semplice averlo: basta aver frequentato un’università e aver fatto il giusto percorso di formazione. Altra cosa è avere l’indole, da infermiere e da medico. Per fortuna quest’indole non è cosa rara, ma purtroppo non è così scontata come dovrebbe.

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