Non è merito del copricapo con le corna nere di Malefica o della chioma bianconera di Crudelia De Mon se le super-cattive Disney sono ormai indimenticabili. I volti delle persone cattive si ricordano meglio. Lo hanno scoperto i ricercatori del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca, coordinati da Alice Mado Proverbio, in uno studio su ‘Plos One‘, grazie a un esperimento in due fasi.
Un volto non ci piace o ci fa paura, anche se a volte non sappiamo dire perché. Fra le aree del cervello maggiormente coinvolte nella formazione di un pregiudizio negativo c’è la corteccia prefrontale mediale sinistra, tanto più attiva quanto più il personaggio fittizio mostrato in una fotografia veniva descritto come immorale o socialmente pericoloso. Le informazioni che ci formiamo sugli altri influenzano il nostro comportamento: è cruciale infatti ricordarsi delle persone che possono danneggiarci. Queste informazioni sono, in senso letterale, dei pregiudizi che si attivano automaticamente e lo scopo di queste ricerche è anche quello di indagare le basi neurali del pregiudizio. Ebbene, nello studio della Bicocca i pregiudizi sono stati creati artificialmente.
Lo studio è stato condotto su un campione formato da 17 studenti universitari, 11 femmine e 6 maschi, al Bicocca Erp Lab, registrando potenziali evento-correlati (Event-related Potential) con una cuffia tecnologica dotata di 128 elettrodi. Nella prima sessione (ovvero di codifica), i volontari hanno osservato 200 facce associate a una breve storia di fantasia che descriveva le caratteristiche positive o negative di ogni persona. Nella seconda (di riconoscimento), i candidati sono stati sottoposti a un test della memoria del tipo ‘vecchio/nuovo’, in cui dovevano distinguere 100 volti nuovi da quelli già visualizzati in precedenza.
Duecento volti umani – con un preciso bilanciamento di età, sesso e comportamenti – sono stati associati a pregiudizi di qualunque tipo, ad esempio vari tipi di reati. Nella prima fase i pregiudizi sono stati creati attraverso brevi frasi associate a ogni singola fotografia, positive o negative. Nella seconda, da 30 a 45 minuti dopo, sono state fatte rivedere le facce già viste insieme ad altre 100 mai viste prima, per un totale dunque di 300, in questo caso senza alcuna frase di accompagnamento.
Ai partecipanti è stato chiesto di premere un tasto se la persona era già stata vista e un altro se era totalmente sconosciuta. Obiettivo: scoprire dove si forma il pregiudizio e se c’è differenza fra pregiudizi positivi e negativi. Ebbene, i ricercatori hanno scoperto che le differenze ci sono, sia nella prima fase di codifica, sia nella seconda fase di riconoscimento. Dopo 500 millisecondi avviene già la formazione di un pregiudizio. I pregiudizi negativi sono in genere associati alla crudeltà e alla totale mancanza di empatia, ad azioni illegali particolarmente gravi e in particolare ai reati contro la persona. Di fronte alle facce connotate negativamente, nell’arco di mezzo secondo si attivavano strutture emotive e affettive, con una più intensa attività della corteccia prefrontale ed una codifica più profonda. E’ come se nella mente risuonasse un campanello d’allarme.
Un allarme che influisce anche sulla fase del riconoscimento. I volti connotati da un pregiudizio negativo risultano infatti più familiari: l’ampiezza dei potenziali evocati e i loro generatori intracorticali erano chiaramente diversi. Il ricordo dei ‘cattivi’ attiva inoltre regioni emotive, ovvero le regioni limbiche, e para-ippocampali, che conservano la memoria dello stato d’animo provato durante il primo incontro con quei volti. “Questo studio – spiega Mado Proverbio – si inserisce nella linea di ricerca della teoria della mente sulle basi neurali del cervello sociale e del cervello morale. Siamo portati a farci un’idea immediata dello stato mentale di una persona che abbiamo davanti, la guardiamo e cerchiamo di immaginare” cosa c’è nella sua mente. (AdnKronos)