Di Enzo Mantovani (Dipartimento di Scienze fisiche della Terra dell’Università di Siena) – Una lunga analisi dell’enorme quantità di evidenze fornite da tutti i rami delle Scienze della Terra (p.e., Mantovani et alii, 2009, 2015a Viti et alii, 2011) ha permesso di ottenere una ricostruzione estremamente dettagliata del quadro tettonico attuale nella catena appenninica e della sua connessione con la distribuzione spazio-temporale dell’attività sismica (sintetizzata in figura 1). Questa ricostruzione suggerisce che nella fase geologica più recente (Quaternario) la parte esterna della catena appenninica, sollecitata dalla Placca adriatica, ha subito una compressione longitudinale. In risposta a questa sollecitazione la catena esterna (indicata dal colore nocciola in figura 1) si è sollevata e spostata circa verso NE, separandosi progressivamente dalla parte interna (tirrenica) dell’Appennino.
La separazione tra queste due fasce ha formato il sistema di faglie estensionali e transtensionali che è chiaramente riconoscibile nella parte assiale della catena, lungo le zone dell’Irpinia, Beneventano, Matese, Aquilano, Fucino, Monti della Laga (Amatrice) e Appennino umbro marchigiano romagnolo. Questo quadro cinematico è stato confermato in modo molto interessante dal campo di velocità ottenuto dalle misure geodetiche (Fig.2), che ha permesso di valutare in termini quantitativi l’effettiva velocità con cui si stanno separando le due parti della catena (3-5 mm/anno nella parte esterna rispetto a 1-2 mm/anno nella parte interna).
Una ricostruzione più dettagliata di questo contesto per l’Appennino centrale e settentrionale è riportata in figura 3, dove si vede che il sistema di faglie disaccoppianti si sviluppa dall’Appennino centrale (zona dell’Aquila) per poi entrare nei monti della Laga e proseguire poi nelle zone di Norcia, Colfiorito, Gualdo Tadino, Gubbio e Alta Valtiberina, fino all’Appennino Romagnolo e Forlivese. La presenza di questo sistema di faglie e la sua attività tettonica attuale è testimoniata dalle numerose scosse storiche forti e molto forti che hanno ripetutamente colpito le zone sopra citate (p.e., Mantovani et alii, 2015b). E’ molto significativo il fatto che questa frattura sia posizionata proprio lungo la zona di transizione tra la parte esterna più mobile della catena e quella interna meno mobile (Fig.3).
Per capire come il progressivo sviluppo dei processi tettonici sia connesso con l’attività sismica è stata fatta una accurata analisi della distribuzione spazio-temporale dei terremoti forti nel periodo in cui la storia sismica viene considerata più completa ed attendibile (Mantovani et alii, 2015b; Viti et alii, 2012). Questa indagine, estesa a tutta l’area mediterranea centrale ha messo in evidenza che la distribuzione delle scosse forti è principalmente condizionata dall’interazione tra la placca adriatica e le catene circostanti (Ellenidi, Dinaridi, Alpi, Appennini). Stretta nella morsa tra Africa ed Eurasia, questa placca cerca di spostarsi circa verso nord. Per fare questo però, la placca deve disaccoppiarsi dalle strutture circostanti, attraverso l’attivazione di faglie sismogenetiche. Questo implica che la sismicità tende a migrare lungo i margini della placca adriatica, corrispondenti alle catene circostanti. La distribuzione dei terremoti nel periodo considerato (1400-2016) indica che una completa migrazione della placca, associata ad una sequenza di scosse lungo tutti i suoi bordi, impiega circa due secoli per svilupparsi. La comprensione di questo meccanismo tettonico di base ha permesso di capire gli aspetti principali dell’attività sismica nelle spazio e nel tempo, soprattutto nella regione italiana, che è di nostro particolare interesse. Sulla base di questo schema interpretativo è stato possibile tentare il riconoscimento delle zone italiane che sono maggiormente esposte alle prossime scosse forti. Questa previsione è principalmente connessa con il fatto che la sequenza sismica periadriatica attualmente in corso si è sviluppata solo in modo parziale, in quanto la placca adriatica si è finora disaccoppiata dalle strutture circostanti solo lungo i suoi bordi meridionali (mediante una lunga serie di terremoti forti), per cui è ragionevole pensare che nello sviluppo successivo di questo processo la probabilità di terremoti intensi è maggiore nelle zone periadriatiche settentrionali (Appennino centro settentrionale, Alpi orientali e Dinaridi settentrionali). Questa previsione di massima è stata poi affiancata da altre preziose indicazioni fornite dai precedenti comportamenti della sismicità lungo l’intera catena appenninica in tutte le sequenze migratorie periadriatiche riconosciute (Mantovani et alii, 2015a,b, 2016; Viti et alii, 2012, 2015).
Questo complesso di informazioni ha permesso di fare una previsione sulle zone italiane maggiormente esposte alle prossime scosse forti, che è stata fornita alla Protezione Civile alcuni anni fa, alla fine di un progetto di ricerca dedicato a queste tematiche. In particolare, questa segnalazione suggerisce che la massima probabilità di terremoti esiste attualmente lungo i bordi del settore appenninico caratterizzato da massima velocità di spostamento, come dedotto da misure geodetiche. Le zone coinvolte in questa identificazione riguardano il bordo interno del settore in oggetto, che corrisponde al sistema di faglie che si sviluppa dall’Aquila all’Alta Valtiberina-Appennino Romagnolo. Lungo il bordo esterno, le zone coinvolte vanno dalle pieghe ferraresi (sepolte sotto la Valpadana) alla fascia costiera che va dal Riminese all’Anconetano.
Il fatto che le ultime scosse forti in Italia (Valpadana 2012 e Appennino umbro marchigiano 2016) siano avvenute in zone comprese nell’area indicata come prioritaria incoraggia a pensare che la metodologia da noi proposta sia affidabile, come del resto confermato dal fatto che il quadro interpretativo adottato permette di trovare spiegazioni plausibili e coerenti per come si sono distribuiti i principali terremoti storici nei secoli passati (Mantovani et alii, 2015b).
E’ comunque doveroso precisare che le previsioni proposte sono unicamente mirate ad agevolare la politica di riduzione del rischio sismico in Italia, in quanto non forniscono alcuna informazione su quando le zone indicate come prioritarie potrebbero essere colpite da scosse forti e quindi non comportano nessun tipo di allarme. A questo proposito, può essere utile fare alcune considerazioni sulle numerose dichiarazioni passate attraverso i media nei giorni scorsi relativamente alla possibile propagazione verso nord della frattura sismica nelle zone dell’Appennino umbro-marchigiano. Per cercare di ottenere informazioni su questo argomento, va considerato che ogni forte scossa innesca una perturbazione del campo di sforzo e deformazione che si propaga nelle zone circostanti con velocità di decine di km all’anno (vedi per esempio, Viti et alii, 2012,2013). In ogni punto del sistema, l’ampiezza di questa perturbazione indotta varia nel tempo, presentando un massimo centrato in un periodo molto limitato. Questo fenomeno implica che il pericolo di scosse indotte nelle zone circostanti raggiunge la massima probabilità entro qualche mese dalla scossa di origine. Il tempo di occorrenza di questa fase di massimo effetto si allontana con l’aumentare della distanza dall’epicentro della scossa scatenante. Passato questo tempo, la probabilità di scosse indotte si riduce molto, anche se in generale rimane più elevata rispetto alla situazione che ha preceduto il terremoto scatenante. Per esempio, dopo il terremoto dell’aquilano nel 2009 non ci sono state scosse indotte importanti nelle zone circostanti.Si può supporre che gli effetti di quel terremoto hanno avvicinato nel tempo l’attivazione della faglia responsabile del terremoto di Amatrice, ma questo processo ha richiesto circa 7 anni per creare una situazione critica in quella faglia. Applicato alla situazione presente, e tenendo conto delle caratteristiche della perturbazione innescata dalle recenti scosse nell’Appennino umbro-marchigiano, si può dire che la probabilità di scosse indotte nelle zone circostanti (entro 200 km) rimarrà apprezzabile per un periodo di 6-12 mesi. Dopo di che, è molto difficile prevedere quando le faglie di quelle zone si potranno attivare.
In generale, sarebbe opportuno che le indicazioni fornite dalle ricerche sopra citate venissero sfruttate per la scelta del più efficace piano di prevenzione nel territorio italiano.
Infine, considerata l’importanza del problema in oggetto e la notevole rilevanza delle scelte strategiche che la Protezione Civile potrebbe essere tenuta a fare per la difesa dai terremoti in Italia, sarebbe fortemente auspicabile la promozione di approfonditi confronti pubblici tra i vari esperti del settore, per chiarire a fondo le possibilità attuali offerte dalle conoscenze scientifiche e soprattutto l’affidabilità delle previsioni proposte. Il tempo impiegato e le energie spese in tali iniziative sarebbero ampiamente ripagate dal fatto che esse potrebbero spianare la strada verso la realizzazione di un programma di prevenzione capace di salvare molte vite umane e fare risparmiare ingenti risorse pubbliche.
Riferimenti
Cenni N., Mantovani E., Baldi P., Viti M., 2012. Present kinematics of Central and Northern Italy from continuous GPS measurements. Journal of Geodynamics, 58, 62-72, doi:10.1016/j.jog.2012.02.004.
Mantovani E., Viti M., Babbucci D., Tamburelli C., 2009. A review on the driving mechanism of the Tyrrhenian-Apennines system: implications for the present seismotectonic setting in the Central-Northern Apennines. Tectonophysics, 476, 22-40, doi:10.1016/j.tecto.2008.10.032.
Mantovani E., Viti M., Cenni N., Babbucci D., Tamburelli C., Baglione M., D’Intinosante V., 2015a. Seismotectonics and present seismic hazard in the Tuscany-Romagna-Marche-Umbria Apennines (Italy). Journal of Geodynamics, 89, 1-14, http://dx.doi.org/10.1016/j.jog.2015.05.001.
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Viti M., Mantovani E., Babbucci D., Cenni N., Tamburelli C., 2015. Where the next strong earthquake in the Italian peninsula? Insights by a deterministic approach. Bollettino di Geofisica Teorica ed Applicata, 56, 329-350, doi: 10.4430/bgta0137.