E’ il terzo tra i tumori più frequenti al di sotto dei 50 anni, un nemico aggressivo dall’incidenza in continua crescita (in Italia si stimano circa 13.800 nuovi casi nel 2016). Eppure nel Belpaese sono in pochi a dichiarare di conoscere il melanoma cutaneo: solo il 28% degli italiani, contro il 45% che si ritiene molto ‘preparato’ sul tumore al seno. Un vuoto informativo che riguarda anche i progressi della medicina e le terapie mirate. E’ il quadro che emerge da un’indagine Swg condotta su un campione di 1.000 cittadini italiani, uomini e donne, e presentata oggi a Milano durante un incontro promosso da Novartis.
Le informazioni sul melanoma vengono reperite principalmente (72%) grazie ai media, poi da amici e conoscenti (39%), dal medico di famiglia o specialista (29%) e grazie a iniziative e campagne di sensibilizzazione e prevenzione (26%). “Un italiano su 3 dichiara di essere entrato in relazione con qualcuno, persona amica o conoscente, colpito da melanoma – fa notare Guja Tacchi, direttore Ricerca Swg – mentre la metà delle persone intervistate dichiara di saperne poco o niente. Un dato che va ulteriormente interpretato alla luce del fatto che tra le principali cause che concorrono alla comparsa del melanoma, gli intervistati individuano nel 78% dei casi l’esposizione solare, seguita dal 63% per la presenza di nei”. Solo il 26% riconosce come fattori di rischio le caratteristiche fenotipiche (colore dei capelli, tipologia di pelle, eccetera), e addirittura un residuo 15% associa la patologia a eventuali modificazioni del Dna della cellula tumorale.
“Il melanoma rappresenta il 3% di tutti i tumori sia negli uomini sia nelle donne. Nonostante sia il tumore meno frequente tra le neoplasie della pelle, è potenzialmente il più maligno, con maggiori probabilità di metastatizzare – spiega l’oncologo medico Giuseppe Palmieri, responsabile dell’Unità di genetica dei tumori del Cnr di Sassari e presidente eletto Imi (Intergruppo melanoma italiano) – Le modificazioni del Dna individuate in questi ultimi anni possono essere di diversi tipi e ciò rende dunque possibile affermare che, dal punto di vista genetico e biologico, i melanomi non sono tutti uguali”. I progressi compiuti dalla ricerca scientifica, in termini di individuazione di specifiche mutazioni a carico del Dna della cellula tumorale, hanno permesso lo sviluppo di trattamenti a bersaglio molecolare che agiscono direttamente sulla mutazione specifica. Si tratta di aspetti complessi e, allo stato attuale, poco chiari alla popolazione italiana: il 59% degli intervistati, infatti, dichiara di non essere a conoscenza del fatto che alcune tipologie di tumori siano contraddistinte da questo tipo di mutazioni della cellula ‘malata’, e il 72% non ha mai sentito parlare di terapie mirate per la cura dei tumori. In questi anni l’approccio di precisione si è concentrato su alcune tipologie di mutazioni come quella a carico del gene Braf-V600 (il 90% delle mutazioni Braf) e del Mek, il componente della cascata molecolare immediatamente a valle di Braf.
“Se fino ad oggi le terapie tradizionali, chemio e radioterapia, hanno avuto come obiettivo il tumore, l’approccio di precisione prende a bersaglio solo le mutazioni genetiche rilevanti – spiega la presidente di Imi Paola Queirolo, Uoc Oncologia medica dell’Irccs San Martino, Ist Genova – La mutazione Braf è presente in circa il 50% della popolazione affetta da melanoma metastatico e rappresenta un importante bersaglio molecolare. Grazie alle evidenze di efficacia e sicurezza dimostrate in importanti studi clinici, la combinazione dabrafenib + trametinib a breve sarà rimborsabile per il trattamento di pazienti adulti con melanoma non resecabile o metastatico positivo per la mutazione di Braf V600”. L’obiettivo delle terapie nel trattamento del melanoma metastatico è quello di rallentare la progressione della malattia, prolungando la sopravvivenza del paziente. Durante il recente Congresso Esmo (European Society for Medical Oncology) i dati dello studio Combi-v, con follow-up a 3 anni, hanno dimostrato per il trattamento di prima linea con la combinazione di dabrafenib + trametinib rispetto alla monoterapia con vemurafenib un miglioramento in termini si sopravvivenza globale – che riguarda il 45% dei pazienti rispetto al 31% trattati con vemurafenib – e di sopravvivenza libera da progressione (24% vs 10%). “A questo – conclude Queirolo – si aggiungono significativi risultati in termini di durata mediana delle risposte complete, che si attesta a circa 3 anni e mezzo. Dati che rinforzano il valore di questa terapia mirata di combinazione nel trattamento di una patologia così complessa”.