All’alba del 4 novembre di 50 anni fa l’Arno rompe gli argini a Firenze. La piena procede velocemente per i lungarno e sommerge tutti i quartieri storici per raggiungere anche Santa Croce e Piazza del Duomo. La marea di acqua e fango travolge tutto ciò che incontra nel suo cammino. Il livello dell’acqua raggiunge nel pomeriggio 5 metri ma l’allarme viene lanciato in ritardo e i soccorsi tardano. L’Italia si accorge della sciagura solo in serata e da quel momento si mette in moto la macchina della solidarietà: dal giorno successivo partono da tutto il mondo quelli che poi verranno definiti “gli Angeli del fango”, e tra loro anche le forze armate che lavorano ininterrottamente giorno e notte. Drammatico il bilancio delle vittime: 35 morti. I danni materiali sono ingenti: distrutti o danneggiati 9.752 negozi, 8.548 botteghe, 248 alberghi, 600 aziende, 13.943 abitazioni, migliaia di automobili. Senza lavoro oltre 30.000 persone. Il patrimonio artistico rischia di andare perduto per sempre: migliaia di volumi e manoscritti rari vengono sommersi dal fango nei magazzini della Biblioteca Nazionale Centrale e nei depositi degli Uffizi. Simbolo dell’alluvione il Crocifisso di Cimabue conservato nella Basilica di Santa Croce che solo dopo un restauro durato anni viene restituito al mondo. L’acqua e il fango, carichi della nafta raccolta dai diversi serbatoi cittadini, raggiungono gli Uffizi, la Biblioteca Nazionale, Santa Croce, il Battistero di San Giovanni, i musei Archeologico e del Bargello, la Biblioteca Nazionale. Molti capolavori vengono danneggiati, oltre al crocifisso di Cimabue, dipinti di Botticelli, Paolo Uccello e Vasari, insieme con altre 1.500 opere d’arte e 1.300.000 volumi della Biblioteca Nazionale.
“6 giorni senza dormire”
“La furia dell’acqua era impressionante. Detriti di ogni tipo venivano trascinati dalla corrente come proiettili. Poi il freddo, il forte odore di gasolio e il giorno dopo il fango. Cosi’ tanto fango che anche i pochi mezzi cingolati arrivati avanzavano a fatica nella melma“: lo racconta Gino Cacace, 77 anni, vigile del fuoco del comando di Firenze che 50 anni fa intervenne insieme a tanti altri suoi colleghi. “Poco dopo l’alba alcune zone di Firenze erano gia’ un lago“. “L’acqua quella mattina sali’ rapidamente. Negli angoli delle strade, dove l’urbanistica aveva previsto curve e spallette, c’erano depositi di materiali accatastati: auto, biciclette, cartelli stradali, insegne dei negozi, letti, mobili, materassi, libri. Ovunque un forte odore di nafta, era il carburante utilizzato per alimentare le caldaie per il riscaldamento. La violenza dell’acqua, entrando nelle cantine, squarcio’ le cisterne e ne diffuse il contenuto in tutta la citta’“. “Io e il mio compagno di squadra di allora, Mauro Tacconi, venimmo chiamati per intervenire in una zona della prima periferia dove, fra le altre cose, ci comunicarono via radio che un uomo dal balcone stava sparando dei colpi di fucile e gridava aiuto. Prendemmo in caserma la prima camionetta Campagnola disponibile e ci dirigemmo sul luogo. Lasciata la macchina in una strada in alto, scendemmo a piedi e, con un piccolo canotto a remi ‘donato’ da due boy scout, iniziammo a vogare, traballando sull’acqua come foglie trasportate dal vento. Presto ci rendemmo conto che l’unico modo per avanzare era reggersi alle uniche cose ancora non divelte: le insegne dei negozi e le inferriate dei balconi dei primi piani“. “Per compiere questo tragitto riuscimmo ad arrivare quasi all’imbrunire, aiutati dalla luce delle poche torce disponibili e dalle lampade a olio che in fretta e furia qualcuno aveva rispolverato“. “L’uomo che sparava in aria non viveva ai piani bassi, bensi’ all’ultimo piano, quindi non era in pericolo. E per di piu’ aveva sparato in aria solo per paura, quindi non ce ne preoccupammo piu’. Al contrario, invece, imbarcammo altre due persone. Un bambino, rimasto solo a casa di uno zio e un adolescente, tutti e due molto impauriti. Ma il canotto era gia’ piccolo per noi…immaginatevi in quattro. Tuttavia, continuando a cavalcare l’acqua e la sua forza, riuscimmo a ‘navigare’ fino a raggiungere 3-4 strade piu’ in la’ e, molto tempo dopo, una pattuglia dei carabinieri alla quale affidammo i due ‘passeggeri’“. “Si ando’ avanti per tutta la settimana. Si passava da un’emergenza all’altra: subito dopo le persone, ci chiamavano nelle chiese, nelle parrocchie, nelle basiliche. Ma dopo pochi giorni Firenze fu invasa da una moltitudine di persone che aiutarono la citta’ e la Toscana ad uscire dalla disperazione, almeno per le cose piu’ immediate, ma questa e’ storia nota“. “Noi facemmo ritorno a casa sei giorni dopo. Lascio immaginare in quali condizioni: stanchi morti, sporchi, bagnati ma contenti del lavoro fatto. Noi siamo Vigili del Fuoco…“.
I bagnini di Viareggio con i pattini da salvataggio
Una ventina di pattini da salvataggio sull’Arno: è l’idea che venne in mente al piccolo esercito di bagnini arrivati da Viareggio. In settanta arrivarono fin dalle prime ore a bordo di due pullman. Tra loro anche Graziano Giannessi, che racconta: “Inizialmente ci fermammo a Poggio a Caiano, in provincia di Prato dove gran parte del Comune era alluvionato e l’acqua era arrivata fino ai secondi piani delle case. Con i nostri pattini, uno dei pochi mezzi che ci permetteva di muoverci anche negli spazi piu’ angusti, aiutammo intere famiglie a mettersi in salvo“. “Chiedevano candele, perche’ in molte case era andata via la luce. Ma anche latte per i bambini, viveri, medicinali, e noi ininterrottamente a fare la spola di qua e di la’, in ogni angolo della citta’“. “Poi ci spostarono a Firenze. Avevano bisogno di noi e soprattutto dei nostri pattini per raggiungere gli uffici della Procura che si erano a loro volta allagati. E quelle piccole imbarcazioni a remi, se guidate da persone come noi che sapevano come utilizzarle, erano perfette per muoversi nelle piccole vie trasformate in canali”. “Certe esperienze ti restano dentro per sempre. Quando incroci la disperazione negli occhi di chi ti trovi davanti, poi non la cancelli piu’…“.
I gioielli di Ponte Vecchio salvati dai carabinieri
I carabinieri cercarono nel fango, a mani nude, monili e gioielli dei maestri gioiellieri di Ponte Vecchio che non crollò quel 4 novembre di cinquanta anni fa: i giovani del 59esimo corso Allievi sottufficiali dei carabinieri di Firenze furono tra i primi a scendere in campo quel giorno. “Un forte urlo e due dei suoi compagni corsero verso una 500 che stava per essere sommersa dal muro di acqua e melma. All’interno si trovavano due giovani sposini: ne uscirono, per fortuna, vivi,” racconta Marcello “Questo e’ cio’ che siamo chiamati a svolgere, la nostra missione“. Una catena umana salvo’ “tre persone dalla furia impietosa dell’acqua. Sentimmo le urla di una donna aggrappata a un palo e di due automobilisti e cosi’, dall’infermeria della caserma, tre militari si legarono ad alcune corde e li misero in salvo“.
Monsignor Betori 50 anni fa “angelo del fango”
Il cardinale Arcivescovo di Firenze, monsignor Giuseppe Betori, ricorda i giorni dell’Alluvione: “Per me fu il primo servizio compiuto per i fiorentini, che anni dopo sarebbero diventati la mia gente. Oggi da vescovo non posso che ricordarlo con orgoglio“. “Erano passati cinque, sei giorni dall’Alluvione e avevo poco piu’ di 19 anni quando con un gruppo di altri seminaristi e preti del seminario Lombardo a Roma, dove ero appena giunto per iniziare i miei studi di teologia all’Universita’ Gregoriana, arrivammo a Firenze per dare una mano alla popolazione. La citta’ era invasa dal fango rimasto dopo che le acque dell’Arno si erano ritirate. Un’immagine per me ancora oggi indelebile. Armati di una pala e di un secchio ci fu assegnato il compito di liberare dalla melma le cantine e i primi piani delle case in un quartiere popolare periferico, nella zona di Badia a Ripoli. La vita di tutti era stata sconvolta, trovammo una situazione di grande sofferenza. Le persone, pur mantenendo evidenti dignita’ e coraggio, avevano uno sguardo attonito su cio’ che li circondava e il nostro esserci era per loro di grande aiuto e sollievo. Ci accoglievano tutti con affetto e riconoscenza. Furono giorni di tristezza, fatica, ma anche di solidarieta’ e speranza. Le stesse emozioni e dolore che purtroppo stiamo rivivendo in questi giorni a causa del terremoto“.
Sulle zattere a salvare vite
Il ricordo di Pietro Deidda, uno dei poliziotti che fronteggiarono l’alluvione di Firenze: “Quella notte ero in questura e l’indomani sarei stato in servizio in piazza Unita’ d’Italia per la cerimonia del 4 novembre. Invece arrivo’ l’allarme e fui inviato a soccorrere le popolazioni del Galluzzo e di Badia a Settimo. Sugli zatteroni che avevamo in dotazione accoglievamo le famiglie che chiedevano aiuto; in molti erano dovuti salire nei piani alti, alcuni fin sul tetto delle case. Caos, bestie vaganti o affogate: la corrente trasportava di tutto“. “Pioveva ininterrottamente da giorni uscii giovedi’ 3 alle 13 dalla caserma, diretto sulla Empolese ad un posto di blocco per le ricerche del terrorista altoatesino Klotz. Dovevano smontare alle 19 del 3 ma solo alle 00,30 del 4 ci rimettemmo in marcia verso Firenze. Tutto il tempo in uniforme, inzuppati e infangati; soccorremmo una famiglia rimasta bloccata in un casolare e poi ci dirigemmo al casello di Signa per bloccare il traffico, mentre l’acqua saliva sempre di piu’,“racconta un altro poliziotto, Francesco Leonardi. “Vista la giornata festiva, contavo di riposarmi. Invece arrivo’ l’acqua”, racconta la poliziotta Augusta Bertaccini Sere. “Riuscii con molte difficolta’ ad arrivare in questura li’ trovai il cortile pieno di gente: chi chiedeva notizie, chi aiuto. Come se non bastasse, le comunicazioni radio saltarono. Ci ritrovammo in quel marasma con tre colleghe e, oltre a farci carico dei problemi di chi era rimasto senza un tetto, autonomamente decidemmo di girare la citta’ per consegnare viveri, medicinali e coperte“. “Quei mesi non li dimentichero’ mai. Un viavai continuo al posto Polfer di centinaia di giovani italiani e stranieri che continuarono ad arrivare fino a Natale e che bisognava instradare al loro arrivo in stazione: erano gli ‘angeli del fango’, che furono autorizzati a dormire in vagoni lasciati in sosta sui binari. Ricordo l’andirivieni degli autocarri carichi di migliaia di libri destinati ad essere asciugati con il calore della centrale termica in stazione. Ne vado fiero“, ricorda Silvano Fabbri.