Dolce o salato? Chi sceglie sempre il secondo forse non lo sa, ma a rispondere per lui potrebbe essere il suo Dna. La passione per i cibi saporiti – anche troppo – potrebbe averla infatti ereditata almeno in parte dai genitori. Lo ha scoperto un gruppo di scienziati Usa, autori di una ricerca presentata a New Orleans durante le Sessioni scientifiche 2016 dell’American Heart Association (Aha). Secondo i risultati preliminari del lavoro, esistono delle comuni varianti genetiche che raddoppiano la probabilità di esagerare con il sale. E il particolare non da poco è che il tratto di Dna ‘sotto accusa’ è lo stesso gene, il TAS2R38, che nelle medesime varianti amplifica la percezione per il gusto amaro, allontanando lo sventurato portatore da cibi amici del cuore come i broccoli e le altre verdure a foglia verde scuro. In altre parole, se si mangia male la colpa è anche dei geni trasmessi da mamma e papà. “L’idea che vi siano fattori genetici capaci di influenzare il gusto non è necessariamente ovvia ai più – commenta Jennifer Smith, dottoranda dello University of Kentucky College of Nursing – Eppure questi fattori possono avere un impatto sulla Salute cardiovascolare, condizionandoci nel cibo che scegliamo“. Studi precedenti – spiegano gli autori – hanno mostrato come le persone con una delle 2 varianti più comuni del gene TAS2R38, portate a percepire in modo più netto il gusto dell’amaro, tendano ad arricciare il naso di fronte a un piatto di vegetali a foglia lunga. Gli scienziati si sono dunque domandati se questo particolare profilo genetico pesasse anche su altre scelte alimentari. Così hanno analizzato le abitudini dietetiche di 407 persone – età media 51 anni, per il 73% donne – che presentavano 2 o più fattori di rischio cardiovascolari e partecipavano a una ricerca sulla riduzione del rischio stesso nelle zone rurali del Kentucky. Confrontando i portatori di una o 2 delle varianti TAS2R38 note per aumentare la sensazione di ‘amaro in bocca’, con chi invece non le mostrava, gli studiosi hanno calcolato che i primi erano 1,9 volte più propensi a consumare dosi di sodio maggiori rispetto alle minime giornaliere raccomandate (la soglia ideale fissata dall’Aha è pari a 1,5 grammi di sodio complessivi quotidiani, aggiunto e già presente nei cibi, senza comunque mai superare i 2,3 g). Esagerare con l’elemento base del sale (cloruro di sodio è il nome chimico di quello comune da cucina), ricordano gli esperti, aumenta il pericolo di ipertensione e quindi di infarti o ictus. Nessun impatto delle varianti genetiche ‘amare’ è stato invece trovato relativamente al consumo di zuccheri, grassi saturi e alcol. Ma perché chi sente di più l’amaro si butta sulla saliera? Un’ipotesi, risponde Smith, è che “le persone che percepiscono maggiormente il gusto amaro avvertano anche di più il salato e ne traggano una maggiore soddisfazione“, mentre un’altra teoria è “che usino più sodio per mascherare il sapore amaro che avvertono in misura più amplificata“. Secondo gli autori, disporre di informazioni su come i geni possono influenzare la percezione gusto da un lato potrà aiutare le persone a optare per cibi più salutari per il cuore, e dall’altro permetterà ai medici di prescrivere indicazioni dietetiche più personalizzate. Fra gli altri elementi che possono condizionare l’amore per un sapore piuttosto che per un altro, i ricercatori citano l’età, il peso, il fumo e l’impiego di alcuni farmaci antipertensivi che potrebbero alterare il gusto. (AdnKronos)