Nel centro operativo comunale di Amatrice, cuore pulsante delle attività amministrative di questo borgo spazzato via del terremoto del 24 agosto, il sindaco Pirozzi entra di buon mattino. Prima di entrare nel suo container dove c’è scritto ‘ufficio del sindaco sfrattato a tempo’, si ferma a parlare con la gente, raconta l’inviata LaPresse Denise Faticante. Classe 1951, il sindaco Pirozzi ha fatto per anni l’allenatore del Trastevere. Ora, dice a LaPresse “Vivo con le 650 euro del mio stipendio da sindaco, perché il vero lavoro dall’allenatore lo faccio qui, tra la mia gente ad Amatrice“.
DOMANDA: Sono passati 4 mesi dalla terribile scossa. La sua frase ‘il paese non esiste più’, ha fatto il giro del mondo finendo anche nella bocca di Papa Francesco. Oggi cosa è rimasto di Amatrice?
RISPOSTA: Quello che c’è sempre stato: l’essere umano. La cosa bella nel dramma è che qui c’è stata sempre vita. Oggi c’è una nuova Amatrice, ripartiremo con la presenza dell’uomo. Poi questa gente ha la felpa, dentro da sempre. La felpa non è un indumento, rappresenta un’identità e un attaccamento alla storia e al territorio. Questa è una bella sfida.
D: A proposito di speranza, ha mai visto scoramento da parte dei cittadini? Si è mai abbassato il morale di questi montanari tenaci?
R: Dopo il 30 (ottobre, con la scossa che ha devastato Norcia ndr) ho avuto la paura che tutti andassero via. Dopo il 24 agosto la situazione si era tranquillizzata ma improvvisamente l’Amatrice solidale era scomparsa. Le reazioni degli uomini spesse volte sono incontrollate.
D: Quale è stato il suo momento più drammatico, in cui lei ha toccato il fondo e ha pensato di non potersi rialzare mai più?
R: Il giorno dopo il 30. Dalle 14 alle 15 mi sono isolato sulla tribuna, i miei collaboratori mi conoscono e ho avuto un’ora nella quale ho riflettuto tanto. Ho pensato a tutto: mi sono diviso dalla mia famiglia, i miei bambini hanno paura, ho rinunciato a tanto. I miei assessori mi conoscono: quando mi isolo sono pericoloso. Ma poi è uscito l’animo dell’allenatore, che va via quando ha vinto a meno che non lo caccino. Dimettermi in quel momento sarebbe stato un atto di profonda codardia. Allora ho pensato: rimango e abbandono la squadra solo quando avremo vinto.
D: Parliamo del futuro: abbiamo visto le casette: sono 25 moduli. Quale è il progetto, chi entrerà per primo? Quali sono i criteri?
R: La gente non deve entrare in un cantiere, le casette devono essere finite anche con i marciapiedi. Non mi piacciono gli spot, la gente entra perché deve stare bene. Io ho investito la mia gente: chi è interessato, faccia domanda. Io saprò da chi fa la domanda, perché li conosco tutti, chi realmente ha messo avanti il noi rispetto all’io. Mi sono appellato al buonsenso della mia gente. L’unico vero criterio è l’invalidità del cento per cento all’interno del nucleo familiare: questa è l’unica e vera priorità. Poi faremo sorteggi, con un notaio.
D: Uno dei lavori più difficili di questo momento è allontanare gli sciacalli e la pressione della ricostruzione. E’ così? E’ vero e se sì come la sta gestendo?
R: Io do solo le carte, non gioco. Chi dà le carte controlla chi gioca. Non si possono fare le due cose contemporaneamente.