Alcuni pescherecci tailandesi negli ultimi anni hanno spostato le proprie attività di pesca verso aree di mare sempre più remote, per non dover sottostare alle stringenti regole adottate da diversi paesi asiatici in seguito ai numerosi scandali di violazione dei diritti umani emersi di recente nell’industria ittica tailandese. È quanto denuncia “Turn the Tide”, report di Greenpeace South Est Asia, che diffonde i risultati di un’indagine durata circa un anno grazie alla quale sono venuti fuori, a bordo di pescherecci tailandesi attivi in Oceano Indiano, casi di pesca illegale, traffico di lavoratori (trafficking) e altri abusi dei loro diritti, tra cui pessime condizioni di lavoro causa di incidenti mortali.
«Quanto da noi raccolto evidenzia le folli pratiche delle flotte tailandesi che operano in aree remote d’alto mare, al di fuori di ogni controllo», spiega Giorgia Monti, responsabile campagna Mare di Greenpeace Italia. «Tali illegalità sono possibili grazie alla dannosa pratica dei trasbordi in alto mare, che permettono ai pescherecci di rimanere per periodi lunghissimi lontano dalla terra ferma, trattenendo per molto tempo gli equipaggi a bordo, spesso in condizioni terribili».
L’indagine di Greenpeace rivela come ben 76 pescherecci d’oltremare tailandesi, per evitare l’inasprimento dei controlli adottati nell’agosto del 2015 in Indonesia e Papua Nuova Guinea, abbiano spostato le proprie attività di pesca nella zona dell’Oceano Indiano nota come Saya de Malha Bank. Un ecosistema marino estremamente fragile, lontano oltre 7 mila kilometri da Samut Sakhon, centro dell’industria ittica tailandese.
Approfittando della possibilità di non dover tornare in porto, trasferendo pesce a grandi navi frigorifero, lontani da ogni controllo, le flotte d’oltremare tailandesi hanno continuato in tale area a portare avanti pratiche illegali molto simili a quelle che in precedenza avevano attirato l’attenzione delle autorità. Pratiche come la pesca distruttiva in fragili ecosistemi marini o illegale. O ancora l’impiego a bordo delle navi di lavoratori vittime di traffici, abusi fisici, spesso sottopagati e, in alcuni casi, talmente malnutriti da ammalarsi di patologie letali che si credevano scomparse da decenni, come il beriberi, causata da mancanza di vitamina B1.
Dopo aver monitorato le attività di varie navi frigorifero che trasferivano in Tailandia il pesce catturato sul Saya de Malha Bank, Greenpeace ha quindi scoperto come quanto pescato finisse nelle filiere delle più grandi compagnie tailandesi che producono prodotti ittici per i mercati internazionali. In particolare, potrebbe esserci un elevato rischio che il pesce pescato da tali flotte sia stato utilizzato per produrre surimi, utilizzato per il cibo per animali venduto poi nei supermercati di tutto il mondo, tra cui anche l’Italia.
«Finché sarà consentita la pratica dei trasbordi d’alto mare, per l’industria ittica sarà praticamente impossibile garantire prodotti provenienti da una pesca sostenibile ed eticamente accettabile», continua Giorgia Monti. «È arrivato il momento che le grandi compagnie decidano di bandire dalle proprie produzioni il pesce trasbordato in mare. Occorre inoltre che si ponga particolare attenzione sulle catene produttive ancora oggetto di irregolarità, come quella tailandese. Solo con scrupolosi controlli e audit terzi, le scelte dei consumatori potranno essere davvero tutelate», conclude Monti.