Sempre più gravidanze over 35 e, di pari passo, aumenta il ricorso ai Non invasive prenatal test (Nipt), uno screening prenatale che, attraverso un prelievo di sangue, individua dalla decima settimana di gestazione eventuali mutazioni cromosomiche. Un mercato mondiale che ha chiuso a 613 milioni di dollari nel 2015 e che spiccherà il volo fino a superare i 2 miliardi nel 2022 e a toccare i 5,5 miliardi entro il 2025. E’ quanto emerge dal report ‘Nipt: crescita del mercato, prospettive future e analisi competitive 2016-2022’, realizzato dall’Istituto americano Credence Research.
“Il successo di questo tipo di test di screening prenatale che individua trisomie, duplicazioni, traslocazioni – si legge in una nota – è riconducibile in parte all’aumento dell’età materna e quindi a un aumento del rischio che il feto sia affetto da anomalie dei cromosomi e in parte alla disponibilità di un’alternativa a tecniche invasive come l’amniocentesi che presentano un profilo di rischio per il nascituro”. Attraverso un semplice campione di sangue materno, infatti, è possibile individuare tracce del Dna circolante del feto che può essere amplificato tramite moderne tecniche di sequenziamento Ngs (Next generation sequencing) e analizzato alla ricerca di anomalie.
“Alla nascita del Nipt – spiega Giuseppe Novelli, genetista dell’Università di Tor Vergata – il Dna del feto presente nel sangue materno veniva sequenziato alla ricerca delle eventuali anomalie dei cromosomi 21 (sindrome di Down), 18 (sindrome di Edwards) e 13 (sindrome di Patau). Oggi, grazie agli sviluppi condotti dalla Bioscience Genomics, spin off dell’Università di Roma Tor Vergata, è possibile fare lo screening per altre 19 anomalie genetiche legate prevalentemente a patologie rare. Il tutto all’interno del territorio italiano, con maggior tutela per la tracciabilità e stabilità del campione di sangue prelevato”.
Infatti, aggiunge Novelli, “il campione non viaggia per il mondo rischiando di deteriorarsi a causa di ritardi dovuti a controlli doganali sempre più rigidi, ma viene analizzato a Roma o Milano, refertato in italiano e inviato al ginecologo che ne discute i risultati con la coppia”. Nel caso in cui lo screening dia un risultato positivo “il protocollo prevede che l’esame sia confermato da un test invasivo che segue un percorso descritto dalle linee guida”.
In questo senso il G-Test “ha dimostrato l’elevata accuratezza in più di 146 mila esami sia nelle gravidanze a rischio sia in quelle non a rischio” ed “è stato riprodotto per più di un milione di pazienti. Nonostante attualmente siano gli Stati Uniti a detenere il 58% del mercato, seguono Europa, Giappone, Australia e Cina. “E’ un caso di tecnologia medica che risponde ad un bisogno sociale – prosegue Novelli – la maternità si è spostata in avanti nell’asse dell’età fertile e questa tendenza non potrà che continuare. Allo stesso tempo la finestra fertile si restringe a un numero minore di anni e questo si traduce in un numero inferiore di figli. E’ normale quindi che su quei bambini si investa il massimo anche in termini di aspettative di salute”.
“Di questo nuovo bisogno di sono accorti anche i governi: l’inglese Nhs – si spiega ancora nel report – renderà disponibile gratuitamente il test dal 2018 con l’obiettivo di risparmiare gli oltre 150 feti sani vittime ogni anno delle tecniche invasive”. (AdnKronos)
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Test screening in gravidanza, il mercato mondiale verso 2 miliardi di dollari
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