Dalle aule scolastiche ai laboratori, per trovare una terapia per i tumori che affiggono i più piccoli. Ignazio Caruana, 34 anni, sognava da sempre di fare l’insegnante, “anzi il pedagogo”, e insegnava in una scuola multi-etnica, quando l’incontro con un’alunna malata di leucemia, morta a soli 10 anni, gli ha fatto scattare un sogno più grande: battere il cancro.
Un sogno che ha portato Caruana a iscriversi a biotecnologie, lasciare l’Italia per fare ricerca negli Stati Uniti e tornare nel nostro Paese, all’ospedale Bambino Gesù di Roma, dove dalla fine del 2014 porta avanti il lavoro avviato negli Usa. E dove, grazie a un ‘grant’ dell’Airc per i giovani cervelli rientrati dall’estero, entro la fine dell’anno tratterà i primi piccoli pazienti con un’innovativa, promettente terapia.
Nel mirino c’è il “neuroblastoma – spiega il ricercatore all’Adnkronos Salute – tumore che colpisce bambini molto piccoli: la maggior parte di loro non risponde ai trattamenti attualmente disponibili. Ma anche la leucemia linfoblastica acuta, che tende a recidivare”. La strategia a cui lavora Caruana “utilizza le cellule prelevate dal bimbo malato o dai genitori, i linfociti T, a cui faccio esprimere una nuova molecola capace di riconoscere in modo selettivo il tumore”. Colpisce dove serve, senza toccare i tessuti sani. Non solo. Il trattamento è costruito in modo da auto-censurarsi se dovesse diventare troppo tossico, grazie all’inserimento di un ‘gene suicida’.
“Il gene suicida – prosegue Caruana – viene inserito nelle cellule geneticamente modificate. In caso di evento avverso, somministro al paziente un farmaco metabolizzato solo dalle cellule Ogm, che muoiono immediatamente. Questo approccio permette di aumentare le capacità di difesa dell’organismo in bambini immuno-depressi, di aumentare l’attività anti-cancro in modo selettivo e anche di garantire la sicurezza del trattamento”, sottolinea.
Il grant ‘Start up’ vinto da Caruana, e grazie a cui questa ricerca va avanti, è un finanziamento quinquennale messo a disposizione dall’Airc (Associazione per la ricerca sul cancro) per ricercatori ‘under 35′ rientrati in Italia: “Il bilancio del primo anno – racconta – è positivo: dopo primi risultati promettenti, siamo vicini a portare nella pratica clinica questo trattamento molto innovativo. Abbiamo fatto richiesta di autorizzazione all’Agenzia del farmaco e al ministero della Salute e spero di trattare il primo paziente entro la fine dell’anno”.
Si tratta di un approccio terapeutico “già utilizzato negli Stati Uniti su pazienti adulti con leucemia linfoblastica acuta – prosegue lo scienziato – pazienti con prognosi infausta, ma che ora sono vivi dopo 3-4 anni da una singola infusione”. Ancora una volta Caruana sogna in grande, come uno scienziato deve fare: “A differenza degli States in Italia somministreremo la terapia in una struttura pubblica e abbiamo arricchito il cocktail terapeutico con questo gene suicida che limita la tossicità del trattamento, rendendolo più controllabile. Un elemento importante, visto che i nostri pazienti sono bambini. Il nostro traguardo è guarirli. Un traguardo enorme, ambizioso, ma è a questo che lavoro”.
“Ho insegnato per qualche anno lavorando con bambini Down o malati, era quello che volevo fare da sempre – racconta il ricercatore – La morte di un’alunna malata di leucemia, ha lasciato un segno profondo: volevo fare qualcosa di più e mi sono iscritto a biotecnologie. E’ stata una scommessa, prima di tutto con me stesso. Ma ero convinto e oggi posso dire di aver vinto questa scommessa: sono stati anni di duro lavoro, ma se tornassi indietro farei lo stesso”.
Dopo la laurea, diverse borse di studio e un contratto di ricerca al San Matteo di Pavia, scommette ancora sul futuro e parte per gli States: “Sono rimasto per quasi sei anni a Houston – prosegue – concentrandomi sull’onco-ematologia e la terapia genica. Poi mi è stata offerta la possibilità di sviluppare in Italia le scoperte fatte negli Usa, con un dottorato all’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. E sono tornato”. Se ne è pentito? “Sono contento del mio lavoro, fiducioso e fortunato a lavorare con persone valide e ‘menti assorbenti’, che hanno voglia di fare la differenza”.
Per il ricercatore, “il sistema universitario italiano non è certo uno dei peggiori, il livello dei ricercatori è molto alto, ma il problema resta la burocrazia: in Usa le opportunità sono tantissime e bisogna lavorare sodo per coglierle, in Italia si tarpano le ali ai singoli ricercatori, soprattutto giovani, e così si frena la ricerca e il progresso”. (AdnKronos)