Alla fine c’è riuscito. DJ Fabo è morto in Svizzera, uscito per sempre da quella “gabbia” nella quale era intrappolato dalla notte del 13 giugno 2014, quando a seguito di un incidente stradale era diventato cieco e tetraplegico. Costretto ad andare all’estero per liberarsi “di una tortura insopportabile e infinita“, come l’aveva definita lui stesso in un videomessaggio pubblicato qualche giorno fa sulla pagina Facebook di Eutanasia legale.
Una morte giunta “non con l’aiuto del mio Stato“, come aveva ribadito Fabo, al secolo Fabiano Antoniani, che ha dovuto chiedere aiuto a Marco Cappato per arrivare in Svizzera e scegliere di morire, dopo anni di terapie e richieste inviate alle Istituzioni affinché regolamentassero l’eutanasia.
In Italia, al momento, la legge sul Biotestamento ha subito l’ennesimo rinvio: era prevista a gennaio, poi a febbraio e ora è slittata a marzo. Decidere quando mettere fine alla propria vita per far cessare ogni sofferenza è una battaglia che nel Belpaese va avanti da 11 anni e che è stata combattuta da tanti prima di Fabo, a partire da Piergiorgio Welby, che ha vinto la sua lotta il giorno in cui è morto. Accadeva il 20 dicembre del 2006, quando Welby, attivista, giornalista, e co-presidente dell’Associazione Luca Coscioni, con l’aiuto del medico anestesista Mario Riccio e dei suoi familiari e amici, sceglie di interrompere le cure e di spegnere il respiratore che lo tiene in vita, immobile a letto a causa della distrofia muscolare.
Il 24 luglio 2007 è la volta di Giovanni Nuvoli, ex arbitro e agente di commercio di Alghero, affetto da sette anni da Sclerosi laterale amiotrofica (Sla) che con ripetuti appelli aveva chiesto più volte di poter morire. Nuvoli, rinominato il ‘Welby sardo’ muore nella sala di rianimazione allestita nella sua villetta alla periferia di Alghero, dopo aver iniziato lo sciopero della fame e della sete. Il suo corpo, 184 cm per soli 37 chilogrammi, non ce la fa. Secondo quanto riferito dalla moglie, Maddalena Soro, al momento del decesso aveva ancora attaccato il respiratore artificiale che lo teneva in vita. “Ha finito di soffrire, si è lasciato morire”, il commento della donna.
Tuttavia, è nel 2009, con il caso Eluana Englaro, che l’opinione pubblica italiana si spacca in due. Eluana Englaro ha 20 anni quando, il 18 gennaio 1992, dopo un brutto incidente d’auto, entra in “stato vegetativo permanente’”, una condizione che le impedisce relazioni con il mondo esterno. Giace immobile in una clinica di Lecco alimentata con un sondino nasogastrico. Da allora il suo tutore è il padre, Beppino Englaro, che si impegna in una lotta senza quartiere per fare in modo che sia rispettata la libertà di sua figlia.
Eluana, sostengono allora i genitori, aveva detto che non avrebbe voluto proseguire i suoi giorni se fosse capitata in una circostanza del genere. Ed è stata proprio la convinzione che sua figlia non avrebbe voluto continuare a vivere in stato di incoscienza a spingere Beppino Englaro a intraprendere una lunga battaglia legale per lei. Eluana muore il 9 febbraio 2009 per disidratazione sopraggiunta a seguito dell’interruzione della nutrizione artificiale.
Nel 2015 Walter Piludu, ex presidente della Provincia di Cagliari e dal 2013 malato di Sla, rivolge un appello ad Angelino Alfano, Silvio Berlusconi, Giorgia Meloni, Matteo Renzi, Matteo Salvini, Nichi Vendola, Beppe Grillo, Mario Monti chiedendo una legge sul fine vita, riaccendendo così i riflettori sull’eutanasia. Piludu muore il 3 novembre 2016, fu dopo che il tribunale di Cagliari impone alla struttura nella quale è ricoverato di rispettare la scelta del malato. “Ancora, mi chiedo e vi chiedo: se, come temo, non potrò andare in Svizzera – scriveva nel suo appello – in ragione di insuperabili ostacoli logistici ed emozionali, in quale altro modo potrò realizzare la mia volontà se non col rifiuto di acqua e cibo e, dunque, con una lenta morte per sete e fame?” (AdnKronos – di Federica Mochi)