Jerrie, Katherine, Dorothy, Mary, ma anche Laurel, Kalpana, Sally, Christa, Judith, Valentina, Shannon, Peggy, Elena, Liu, Claudie e Samantha.
Nomi di donna, a cui corrispondono intelligenza, carattere ed anche fascino, perché nessuna di esse ha rinnegato la sua natura ed ha abdicato la vita allo spazio.
Donne e storia dell’astronautica sono legate indissolubilmente, eppure la loro partecipazione è stata tenuta in ombra per diversi decenni, in alcuni casi addirittura osteggiata e negata per motivi politici e/o sociali.
Eppure, se il genere umano ha potuto varcare la soglia dell’atmosfera, lo si deve all’essenziale contributo che centinaia di donne hanno fornito, come scienziati, piloti e tecnici.
I tentativi per portare alla luce le loro storie, quelle più taciute che appartengono ai periodi pionieristici del volo spaziale, si debbono alla tenacia ed alla perseveranza di pochi giornalisti, ricercatori e semplici appassionati.
Grazie al libro di Martha Ackmann, (The New York Times, The Boston Globe, The Los Angeles Times), si è arrivati a conoscere nomi e volti, delle tredici donne che costituirono il primo nucleo delle potenziali astronaute della NASA (“Mercury 13” uscito in Italia sotto i tipi dell’editore Springer della collana iBlu, 2011).
Il programma era la faccia nascosta del più conosciuto Mercury 7, che mandò in orbita con la capsula Friendship il colonnello John Glenn nel ‘62.
Mercury 13, anche noto come “Fellow Lady Astronaut Trainees” ebbe luogo all’inizio degli anni ‘60 come progetto non ufficiale della NASA e condotto dalla Lovelace Foundation ad Albuquerque (New Mexico) presso il Los Alamos Scientific Laboratory.
Delle 25 candidate iniziali, 13 arrivano a concludere positivamente l’iter di selezione e si candidarono ad occupare un posto all’interno delle capsule Mercury che stavano portando in orbita (fra il 1958 ed il 1963) gli astronauti americani.
I test seguivano lo stesso syllabus maschile, articolandosi attraverso le durissime prove fisiche, psicologiche e di simulazione del volo spaziale.
Il dott. Randolph Lovelace, responsabile degli studi, durante un convegno a Stoccolma nel quale presentò i risultati dei test svolti con Jerrie Cobb, disse: ”un esemplare umano eccezionale, pari agli astronauti del programma Mercury, come forma fisica e capacità di sopportare gli stress del volo spaziale”.
Oltretutto, molti tecnici della NASA guardavano con pragmatico interesse a questo programma perché il loro fisico era più minuto e consumavano meno ossigeno.
Anche l’aspetto dell’esperienza di volo non era inferiore. Jerrie Cobb aveva all’attivo oltre 13mila ore di volo, più del doppio di quelle che poteva vantare John Glenn, primo americano in orbita terrestre e, nel 1953, aveva volato in formazione con Chuck Yeager su un F-86.
La cancellazione del programma avvenne nel ’62 da parte di Lyndon Johnson, quando le candidate si sarebbero dovute trasferire alla Wright – Patterson Air Force Base, per proseguire i test in volo sui jet dell’USAF. Tre anni più tardi e dall’altra parte del Muro, sarebbe toccato alla sovietica Valentina Vladimirovna Tereškova, entrare nella storia come prima donna astronauta.
Le donne americane avrebbero dovuto attendere il 1983 e salutare Sally Ride, come pioniera occidentale fra le stelle con lo Shuttle Challenger, il 1995 per vedere Eileen Collins ai comandi dello Shuttle e diventarne il primo comandante, cinque anni dopo.
Per le donne cinesi, il battesimo del volo nello spazio è arrivato solo il 16 giugno 2012 con il maggiore Liu Yang con la Shenzhou 9, la prima missione con equipaggio umano che ha raggiunto la stazione spaziale cinese Tiangong 1.
Donne e uomini, in egual misura, hanno generato nell’opinione pubblica un forte impatto emotivo, con il tributo di sangue che hanno pagato per aprire all’Uomo la porta allo spazio.
I fratelli torinesi Achille e Giovanni Battista Judica Cordiglia, nel biennio ’60-’61, hanno effettuato diverse registrazioni di voci femminili, appartenenti ad astronaute del blocco sovietico, contenenti richieste di aiuto a terra.
Il numero esatto ed i loro nomi, forse, non li conosceremo mai. Però abbiamo chiaro in mente, chi erano le quattro astronaute decedute nei due tragici voli della navetta americana, causando un dolore non minore di quello della morte dei colleghi uomini.
Il 1986 iniziò nel peggiore dei modi, quando la mattina del 28 gennaio, il Challenger (STS-51-L) esplodendo in volo si portò via, 73 secondi dopo il decollo, l’intero equipaggio di cui facevano parte Judith Resnick e l’insegnante elementare Christa McAuliffe.
Sette anni dopo, il Columbia (STS-107) si disintegrò nella fase di rientro ed il tributo delle sette vite umane, coinvolse anche lo specialista di missione e chirurgo Laurel Clark e l’ingegnere aerospaziale Kalpana Chawla, prima astronauta indiana.
Sarà la settima arte, a partire dall’8 marzo (negli USA il film è già uscito nelle sale a gennaio), a farci conoscere un’altra storia di spazio al femminile.
“Hidden figure”, questo il titolo originale della pellicola, è tratto dal romanzo di Margot Lee Shetterly “Hidden figures: the story of the african-american some who helped win the space race”, che esce in Italia con il titolo di “Il diritto di contare”.
E’ la storia vera di Katherine G. Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson, tre matematiche di colore che, con le loro elaborazioni numeriche, diedero un contributo determinante nella corsa allo spazio ed al balzo di Glenn verso le stelle.
Il film, che vede la partecipazione, fra gli altri, di Kirsten Dunst (Spiderman), Kevin Kostner e Jim Parsons (Sheldon Cooper della serie tv Big Bang Theory) e la produzione di Pharrell Williams (rapper e stilista americano), sta diventando uno dei principali successi del botteghino di questa stagione.
E per tutte le fanciulle che soffrono della sindrome di Peter Pan e non vogliono diventare grandi?
Tranquille, c’è chi ha pensato anche a voi.
Il colosso danese delle costruzioni, i famosi mattoncini per intenderci, produrrà una serie di minifigures che omaggiano le donne che hanno lavorato nelle missioni spaziali NASA.
Due matematiche geniali, due astronaute ed un’astronoma, ecco come sarà composto il set che la LEGO commercializzerà a partire da fine anno.
L’idea è partita dalla direttrice dell’MIT News, Maia Weinstock, la prestigiosa pubblicazione del campus universitario americano.
La serie “Donne della NASA”, nasce come risposta al concorso LEGO Ideas bandito dal colosso nordico e che ha saputo raccogliere oltre 10mila preferenze nella votazione finale.
Nancy Grace Norman, astronoma e conosciuta come “la mamma di Hubble”; Sally Ride, prima astronauta a volare con lo Shuttle nello spazio; Margaret Heatfield Hamilton, direttrice del Software Engineering Division del MIT che sviluppò il software del programma Apollo; Mae Jamison, prima afroamericana a partecipare ad una missione nello spazio ed attore nella serie Star Trek; Katherine Coleman Goble Johnson, matematica coinvolta nella scrittura dei sw come la Hamilton.
L’idea della serie di omini, è stata proposta dalla Weinstock, per omaggiare le donne della NASA, ma anche per essere di stimolo alle donne di oggi ad intraprendere una carriera nelle materie STEM (materie che fanno capo alla scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica).