Tra gli 8 e i 10 miliardi di euro. E’ il volume di affari annuo a cui potrebbe arrivare, nel prossimo quinquennio, il mercato dell’efficienza energetica in Italia, in pieno consolidamento e atteso a breve nella fase di maturità. Le previsioni di investimento relative al periodo 2017-2020 si attestano infatti tra i 29,8 e i 34,4 miliardi di euro, con un volume d’affari medio annuo tra i 7,5 e gli 8,6 miliardi.
Sono le conclusioni contenute nell’Energy Efficiency Report 2017 realizzato dall’Energy&Strategy Group della School of Management del Politecnico di Milano e presentato questa mattina. Protagonisti della giornata di studio, oltre al gruppo di lavoro diretto dal professor Vittorio Chiesa, anche i partner della ricerca, mai tanto numerosi come in questa edizione – tutti nomi di primo piano tra i gruppi energetici e finanziari del Paese, i fornitori di tecnologia e le ESCo – e le istituzioni che regolano il mercato, grazie all’intervento di Francesco Sperandini, presidente e amministratore delegato del GSE.
Gli investimenti in efficienza energetica realizzati in Italia nel 2016 – si legge nell’Energy Efficiency Report 2017 – hanno raggiunto i 6,13 miliardi di euro, confermando il trend positivo degli ultimi 5 anni e facendo registrare una crescita dell’8% rispetto al 2015, un buon assestamento dopo il “boom” del 2014 dovuto soprattutto alla scesa in campo del comparto industriale.
A guidare la classifica con oltre 3 miliardi di euro di investimenti e il 53% del totale è sempre il segmento residenziale, ma quelli che hanno dimostrato maggiore vivacità sono il comparto industriale (poco meno del 33%, circa 2 miliardi di euro) e il terziario, GDO, alberghi e uffici, che cuba appena il 14% degli investimenti (800 milioni di euro) ma è cresciuto di circa 3 punti percentuali sul 2015.
“Una vivacità che si è tradotta in una crescita importante del livello di maturità della filiera dell’efficienza energetica – commenta Vittorio Chiesa, direttore dell’E&S Group della School of Management del Politecnico di Milano -: il numero di ESCo certificate è quasi raddoppiato nel corso del 2016 e, dato per certi versi ancor più interessante, sono molte le utility che hanno aumentato il peso della propria presenza nel settore. La strada per il raggiungimento degli obiettivi europei di efficientamento energetico e riduzione delle emissioni, però, è ancora lunga. E va tenuto alto il livello di attenzione per evitare che l’efficienza energetica diventi troppo presto una commodity sul nostro mercato”.
Le soluzioni di efficienza energetica maggiormente adottate nel 2016 sono state le pompe di calore, l’illuminazione e le superfici opache, che da sole hanno riguardato oltre il 50% della spesa complessiva e che sono state installate per la quasi totalità in ambito residenziale: 1,17 miliardi di euro sono stati spesi per le pompe di calore (il 90% in strutture abitative), circa 1 miliardo ciascuno per l’illuminazione (oltre la metà in abitazioni) e le superfici opache (80%).
Se si analizza il comparto industriale, invece, a farla da padroni sono stati gli impianti di cogenerazione e i sistemi di combustione efficienti, per un valore di 586 e 482 milioni di euro, a cui vanno aggiunte le caldaie a condensazione (315 milioni) e le chiusure vetrate (280).
Il ruolo delle ESCo e la relazione con le utility
Nel corso del 2016 le ESCo (Energy Service Companies) certificate sono aumentate di quasi il 90%, passando in un anno da 144 a 272 (45 delle quali nate dopo il 2012) e facendo crescere del 10% nell’ultimo quinquennio i dipendenti degli operatori specializzati in efficienza energetica, che lo scorso anno erano 7300. Ciononostante, i ricavi delle ESCo sono diminuiti del 10%, passando dai 3,4 miliardi del 2012 ai 3 del 2016.
Se si considera l’EBIT, ossia l’utile prima delle tasse e degli oneri finanziari, il trend invece è crescente: 147 milioni nel 2012 e 170 nel 2016 (+15%). Ma tale andamento è solo all’apparenza positivo: in realtà è dovuto a una diminuzione degli investimenti che le ESCo hanno fatto presso i clienti ed è il segnale di un rallentamento della loro presa sul mercato. Il quadro che emerge è quindi a luci e ombre, con un panorama delle ESCo estremamente frammentato, caratterizzato da operatori di piccole dimensioni e con una bassa marginalità, tanto che nell’ultimo anno il 50% ha fatto registrare un fatturato minore di 1,9 milioni di euro e un EBIT inferiore a 71.000 euro.
Nel 2016 le ESCo hanno realizzato investimenti per 836 milioni di euro, pari ad una quota di mercato di poco inferiore al 14% (era l’11,6 nel 2015): si va dal 25% nel comparto industriale al 23% nel settore terziario/uffici, mentre continuano a persistere notevoli difficoltà nell’aggredire con efficacia il mercato residenziale. Degli oltre 3,2 miliardi investiti nel settore, solamente poco più di 110 milioni sono appannaggio delle ESCo.
Il ruolo delle ESCo quindi ad oggi è ancora minoritario in tutti i comparti. La soluzione tecnologica che sembra trainarne lo sviluppo è la cogenerazione, di cui detengono il 40% del mercato e che veicola il 30% degli investimenti da esse realizzati. Gli interventi di efficientamento di impianti di illuminazione invece pesano per oltre il 20% sugli investimenti delle ESCo, ma queste riescono a intercettare solamente il 17% del mercato: a un notevole peso nel fatturato non corrisponde dunque un’ampia presa sul mercato e questo potrebbe rappresentare un problema nel medio-lungo termine. Interventi di ottimizzazione della refrigerazione, aria compressa e implementazione di SGE rappresentano invece soluzioni in cui le ESCo sono i principali operatori (degli SGE hanno oltre il 70% del mercato), ma si tratta di nicchie estremamente ridotte.
Un trend interessante riguarda poi l’aumento del peso delle utility nell’offerta di servizi di efficienza energetica. Delle 22 top utility del nostro Paese, ben 18 hanno al proprio interno una divisione che si occupa di servizi di efficienza energetica posizionata al primo o al secondo livello dell’organigramma, a testimonianza di come questo tema stia acquisendo importanza. Tra le utility che hanno creato una business unit dedicata (10, il 55% del campione) ben 6 hanno poi al proprio interno una ESCo certificata, talvolta una società esterna che è stata acquisita.
“Il fermento che ha visto la creazione di nuove ESCo dal 2012 al 2016 ha quindi
interessato in maniera significativa anche le utility – commenta Vittorio Chiesa -. Se questo, da un lato, rappresenta un ulteriore segnale dell’interesse verso i servizi di efficienza energetica, dall’altro pone una seria questione circa la possibilità per il mercato di sopportare un incremento della
competizione e soprattutto una diversificazione così spinta della tipologia di operatori.
L’ingresso delle big dell’energia nei servizi di efficienza energetica è indubbiamente una minaccia
per il resto delle ESCo, soprattutto quelle nate esclusivamente per fare questo mestiere. Le utility possono infatti sfruttare la disponibilità di capitali e la capillarità che deriva loro dalla vendita del vettore energetico per aggredire in maniera efficace sia il mondo industriale che quello residenziale. Tuttavia, essendo ancora ‘giovani’ nel campo dell’efficienza energetica, non hanno sviluppato competenze specifiche. È in quest’ottica che il connubio tra ESCo e utility consentirebbe a entrambi di colmare le lacune, sfruttare i rispettivi punti di forza e trasformarsi in un volano per lo sviluppo con un processo di concentrazione di cui oggi si vedono solo le prime avvisaglie”.
Primo spunto di approfondimento: i Piani d’azione per l’energia sostenibile
Sono stati analizzati i 46 Comuni italiani con più di 100.000 abitanti per valutare il livello di diffusione dei PAES (Piani d’azione per l’energia sostenibile) e il loro stato di avanzamento relativamente all’efficienza energetica. Oltre l’80% delle città (38) ha aderito al Patto dei Sindaci e presentato un PAES. Di queste, il 63% è già nella fase di monitoraggio dei risultati e il 16% ha fatto
un ulteriore passo, integrando nei propri obiettivi anche la definizione delle azioni chiave per l’adattamento ai cambiamenti climatici.
I PAES delle 38 città del campione prevedevano di investire circa 4,9 miliardi di euro e realizzare 300 azioni, ma attualmente – in media a 4 anni dall’approvazione – ne sono state realizzate solo 144 (48%) e se si analizzano gli investimenti la situazione è ancora meno “brillante”: appena 1,1
miliardi di euro, il 23% della quota prevista.
Le 38 città sono state divise seguendo una metafora ciclistica: nel “gruppo di testa” rientrano solo tre città del Nord – Milano, Torino e Verona – che hanno dimostrato una grande attenzione
agli interventi di efficientamento energetico inseriti all’interno del documento, con un approccio
strutturato e organico che ha reso il PAES un vero e proprio strumento di pianificazione e
programmazione per le politiche ambientali della città. Il livello di completamento, sia in ambito azioni che investimenti, è per tutte superiore al 70%.
Nel “gruppo degli inseguitori” troviamo altri 14 centri (37%), distribuiti in modo eterogeneo sul territorio nazionale e caratterizzati da una partecipazione attiva e dal raggiungimento di livelli medi di avanzamento. Nella categoria “ritardatari” stanno purtroppo tutti gli altri, cioè 21 città, pari al 55% del totale, con meno del 50% delle azioni completate rispetto a quelle previste e un ammontare di investimenti realizzati inferiore al 30%.
Il 39% dei Comuni analizzati ha una quota di completamento delle azioni maggiore di quella
degli investimenti realizzati: pur avendo terminato diverse azioni tra quelle previste ha privilegiato la quantità rispetto agli investimenti. Al contrario, solo il 13% del campione ha implementato un numero ridotto di azioni che però ha richiesto ingenti investimenti. Dunque, la PA si sta approcciando alla questione dell’efficienza preferendo numerose azioni a minor costo rispetto a pochi interventi strutturati ma dispendiosi. Restano infatti troppo spesso escluse le azioni di natura ‘strutturale’ con un impatto sui consumi che vada oltre la bolletta energetica della sola PA.
“La propensione dei Comuni italiani verso i PAES sembra essere al momento solo di facciata, senza aggredire in maniera decisa il problema dell’efficientamento energetico – commenta Chiesa -. La mancanza di fondi e la ridotta diffusione di meccanismi virtuosi di finanziamento quali i PPP (partenariati pubblico-privati) sono alla base di questa situazione. Va tuttavia sottolineato come, almeno sulla carta, vi sia nel nostro Paese una pianificazione piuttosto capillare ed estesa di interventi di efficientamento energetico, un patrimonio importante da cui partire”.
Secondo spunto di approfondimento: la diffusione nel sistema industriale della cultura dell’efficienza energetica
Tra il gennaio e il maggio 2017 è stato diffuso un questionario per valutare la propensione all’efficienza energetica delle imprese italiane. Le risposte, 183, sono state raccolte tra gli oltre 700 energy manager (laddove presenti in azienda) dichiarati dalla Federazione italiana per l’uso razionale dell’energia (FIRE) e tra gli associati delle associazioni di Categoria ASSOEGE, ANIMA, ANIE. Un’indagine analoga era stata già realizzata nel 2012 (115 risposte) e pubblicata nell’Energy Efficiency Report di quell’anno. I campioni differiscono nella loro composizione, ma, essendo entrambi rappresentativi del comparto industriale, è possibile fornire una valutazione su come si sia evoluta nel corso dell’ultimo quinquennio.
Innanzitutto emerge una significativa attenzione al tema dell’efficienza energetica, dovuta in primis alla diffusione dello strumento degli audit energetici, cioè l’obbligo di diagnosi energetica per i soggetti grandi e per quelli energivori. Inoltre si sta diffondendo all’interno degli organigrammi aziendali la figura dell’energy manager, un ruolo organizzativo ad hoc per la gestione dell’energia.
“Sette imprese su 10 hanno realizzato progetti di efficienza energetica nell’ultimo anno e la maggior parte dichiara di avere incrementato i propri investimenti – precisa il direttore dell’E&S Group -. Gli interventi di efficienza energetica stanno gradualmente assumendo un ruolo strategico per lo sviluppo dell’impresa e il consumo energetico sta divenendo un driver di valutazione della vita utile residua di un asset: un macchinario viene considerato obsolescente quando inizia a far registrare consumi più elevati dello standard e ciò rappresenta sicuramente un cambiamento di
paradigma importante. Inoltre, negli ultimi 5 anni è aumentata notevolmente l’attenzione da parte degli operatori industriali verso la misura ed il controllo dei consumi energetici ed emerge un chiaro trend, soprattutto tra i soggetti energivori, verso l’adozione di approcci all’efficienza energetica sempre più strutturati e organici. Rimangono tuttavia ancora delle ombre: gli eccessivi tempi di ritorno degli investimenti rappresentano una barriera alla realizzazione di interventi per l’80% degli operatori, a cui si aggiungono l’incertezza del quadro normativo, le difficoltà di interazione tra il processo produttivo esistente e la nuova soluzione tecnologica e il limitato accesso al credito”.
Quasi l’80% delle imprese che ha sostenuto investimenti in efficienza energetica nel corso del
2016 ha realizzato gli interventi internamente. Nelle PMI questo è legato soprattutto ad una diffidenza piuttosto radicata verso i soggetti esterni e alla volontà di proteggere il know how critico. Per le grandi imprese invece si tratta di risparmiare sui costi. La quasi totalità del comparto industriale lamenta però una certa inadeguatezza nelle competenze tecniche dei soggetti esterni che si potrebbero occupare della realizzazione di interventi di efficienza energetica.
Tra i soggetti esterni, quelli che detengono la maggiore quota di mercato sono le ESCo: gli operatori specializzati vengono premiati soprattutto dalle imprese energivore, che sono particolarmente sensibili alle competenze tecniche e al livello di servizio. Tuttavia, anche quando l’intervento è stato realizzato da un soggetto esterno, la metà delle volte il rapporto si interrompe alla consegna della soluzione e le attività di monitoraggio e manutenzione sono svolte internamente.
Terzo spunto di approfondimento: la diffusione degli edifici NZEB in Italia
Il numero di edifici nZEB oggi in Italia è compreso tra “solo” 650 e 850 unità, di cui circa il 93%
a uso residenziale. Si consideri che gli edifici residenziali sono circa 12,1 milioni (il 74% costruito prima degli anni ’80), cui si aggiungono 1,5 milioni di edifici non residenziali. L’attenzione verso gli ‘’Edifici ad energia quasi zero’’ ha una chiara focalizzazione territoriale: appena 3 regioni (Trentino Alto Adige, Lombardia e in misura minore Veneto) mostrano i primi segni del fenomeno e tuttavia in Lombardia gli edifici nZEB costruiti a partire dal 1 gennaio 2016, quando è scattata l’obbligatorietà, rappresentano solo il 3% del totale.
Ma quali sono i motivi di questa scarsa diffusione? Sono di natura tecnica o economica? Il Rapporto affronta nel dettaglio la questione e la conclusioni a cui giunge, in sintesi, è che la barriera principale sia la sostenibilità economica. Nonostante infatti gli importanti benefici in termini di consumi, emerge chiaramente come i tempi di ritorno degli investimenti non siano accettabili: tra 30 e 40 anni per gli edifici ad uso ufficio, per una villetta residenziale addirittura oltre la vita utile della costruzione. L’extra costo degli edifici nZEB rende dunque tale paradigma ancora lontano dal poter essere definito economicamente conveniente.
Anche se alcune soluzioni tecnologiche rappresentano una costante di tutti i progetti analizzati (presenza di serramenti ad alte prestazioni, ventilazione meccanica con recupero di calore per la qualità dell’aria e pannelli fotovoltaici), non esiste un’unica ricetta per la realizzazione degli nZEB, ma prevale la combinazione di diverse tecnologie anche sulla base delle specificità climatiche. Il fabbisogno di energia termica è soddisfatto generalmente dall’installazione di pompe di calore (ove possibile geotermiche) o impianti solari termici per la produzione di ACS, quello elettrico da un impianto fotovoltaico. Non mancano soluzioni innovative, come il riciclo dell’acqua piovana (grazie ad avanzati impianti di domotica e alla fitodepurazione) o l’installazione di ascensori con recupero di energia. Se è vero, però, che le soluzioni tecnologiche sono disponibili è altrettanto vero che il risparmio energetico aggiuntivo rispetto ad una soluzione standard di efficienza energetica difficilmente permette tempi di rientro brevi per l’investimento.
I Titoli di efficienza energetica: il bilancio per il Sistema Paese
Complessivamente, dal momento della loro attivazione nel 2006, sono stati riconosciuti 41,7 milioni di Titoli di efficienza energetica (TEE, di cui sono state recentemente pubblicate le nuove Linee guida), corrispondenti a 23,8 Mtep di risparmio energetico. L’anno 2016 ha pesato per il 13% sul totale dei titoli emessi, mostrando comunque un trend crescente nell’utilizzo del meccanismo.
Gli interventi più rappresentativi dell’orizzonte 2006-2016 sono stati indubbiamente quelli di generazione e recupero di calore per raffreddamento, essiccazione, cottura e fusione (circa il
31% dei TEE totali concessi), seguiti dall’ottimizzazione energetica dei processi produttivi e dei
layout di impianti (13%) e dall’installazione di lampade fluorescenti compatte (9%). Nel corso del 2016 sono state presentate, nell’ambito del meccanismo dei Certificati bianchi, 11.709 Richieste di verifica e certificazioni (RVC) relative sia a nuovi progetti che a rendicontazioni successive e 815 Proposte di progetto e di programma di misura (PPPM). Il valore complessivo è quindi pari a 12.524 richieste (+6% rispetto al 2015).
Chi ha tratto vantaggio dal meccanismo dei TEE sono gli attori della filiera italiana dell’efficienza energetica e le utenze energetiche, che hanno ottenuto un beneficio netto rispettivamente pari a 3,7 e 4,9 miliardi di euro. Chi ha invece registrano un saldo negativo sono lo Stato e le utility, rispettivamente -1,4 e -5,1 miliardi di euro. L’unico soggetto che ha veramente investito nei TEE è stato invece lo Stato. Dal punto di vista del Sistema Paese nel suo complesso, il meccanismo dei Titoli di efficienza energetica ha generato un beneficio netto pari ad oltre 2,1 miliardi dalla sua entrata in vigore, corrispondente a circa 50 euro per ogni TEE emesso.
“Complessivamente quindi si può affermare che lo Stato, introducendo il meccanismo dei TEE,
abbia svolto una funzione di redistributore e attivatore del sistema economico – conclude Vittorio Chiesa – permettendo, a fronte di un saldo negativo per se stesso e per le utility, la creazione di una filiera nazionale dell’efficienza energetica. Provocatoriamente ci si potrebbe chiedere se si sarebbero registrati gli stessi benefici qualora non ci fossero stati gli esborsi dello Stato legati al meccanismo dei TEE, che ha avuto un impatto molto forte nella diffusione della cultura dell’efficienza nel tessuto industriale. In particolare, l’introduzione dei TEE ha permesso di ridurre i tempi di ritorno degli investimenti, che è una delle principali barriere che ostacolano la realizzazione di misure di efficienza energetica”.