Trent’anni fa il dramma della Valtellina che causò 53 morti e 2 mesi di emergenza, in merito alla tragedia si esprime la Comunità Scientifica.
Pambianchi il Presidente dei Geomorfologi afferma: “L’evento della Valtellina segnò un momento importante per la gestione dell’emergenza relativa al rischio geologico in Italia. Nell’accumulo di frana che si staccò dal Monte Zandila, trovarono enormi blocchi di detrito cementato da ghiaccio. Era la prova della fusione del ghiaccio all’interno di rocce già interessate da enormi frane. Ben 10 anni dopo la Lombardia si sarebbe dotata del Servizio Geologico”.
Guglielmin, dell’Università dell’Insubria: “Noi ricercatori arrivammo ad importanti risultati. Si scoprì così che mentre il ghiaccio se presente nelle fratture degli ammassi rocciosi è ad una temperatura tra -2°C e -1°C è altamente instabile e che quindi non è necessario che il permafrost si degradi completamente per destabilizzare il versante”.
Dopo un periodo di forti piogge, che interessarono tanto il fondovalle come i ghiacciai più alti, il 18 luglio alle 17.30 nel paese di Tartano in Valtellina un’enorme massa d’acqua e fango si abbatté su un condominio tranciandolo a metà. Iniziò così l’alluvione in Valtellina che diede vita ad una serie di disastri e ad un’emergenza durata 2 mesi. Alla fine i morti furono complessivamente 53, migliaia gli sfollati, danni per ben 4000 miliardi di lire. Alle 7.23 del 18 luglio una frana di oltre 30 milioni di metri cubi, si staccò dal Monte Zandila alto più di 3000 metri e fu un’immane tragedia.
Completamente spazzato via il paese di San Antonio Morignone provocando 27 morti.
“La frana di Val Pola segnò un momento importante per la gestione dell’emergenza relativa al rischio geologico in Italia con un grande seguito mediatico e politico – ha affermato Gilberto Pambianchi, Presidente Nazionale dei Geomorfologi Italiani – che portò per esempio una Regione come la Lombardia a dotarsi di un Servizio Geologico di oltre 30 geologi circa 10 anni dopo l’evento. La frana della Val Pola è anche un esempio del ruolo che i geomorfologi possono avere nel nostro paese infatti già nel 1995, i geomorfologi, segnalavano il possibile legame di questo catastrofico evento con il Cambiamento Climatico in quanto nell’accumulo di frana furono ritrovati enormi blocchi di detrito cementato da ghiaccio (permafrost) e si pensò quindi che la presenza del permafrost in un’area interessata da una enorme frana come quella del Monte Zandila avesse avuto un ruolo determinante”.
In seguito alla frana i ricercatori arrivarono a scoperte importanti.
“Anche sulla spinta di questo evento nel 1998 l’Unione Europea finanziò il Progetto PACE (Permafrost and Climate in Europe) – ha dichiarato Mauro Guglielmin, Docente di Geomorfologia presso l’Università dell’Insubria – che portò ad alcuni progressi sul ruolo del permafrost e la stabilità dei versanti e sulle sue relazioni con il Cambiamento del Clima. Si scoprì così che mentre il ghiaccio se presente nelle fratture degli ammassi rocciosi è ad una temperatura tra -2°C e -1°C è altamente instabile e che quindi non è necessario che il permafrost si degradi completamente per destabilizzare il versante.”
“Ora grazie all’azione di diversi ricercatori di AIGeo si è migliorata la conoscenza sia della distribuzione che delle condizioni termiche del permafrost in Italia (che è quasi sempre proprio tra -2°C e 0°C) anche se negli ultimi tempi dagli ambiti politici la sensibilità è di nuovo diminuita e sicuramente necessita di un nuovo impulso prima che i cambiamenti climatici ricreino una nuova situazione di emergenza. manca infatti un piano nazionale sugli effetti del Cambiamento Climatico sulla stabilità dei versanti che solo i geomorfologi-geografi fisici possono affrontare a tutto tondo garantendo di passare da una emergenza ad una gestione e ad una prevenzione”.