Conosci la tua malattia, parla con parenti e amici, non rinunciare al sesso, valorizza la tua dimensione spirituale, rilassati, coltiva hobby e dai valore alle esperienze positive, prenditi cura del tuo aspetto. Sono i punti di un ‘decalogo per la vita’, una sorta di manuale di auto-aiuto messo a punto dalla Società italiana di psico-oncologia (Sipo) per la campagna di nazionale di informazione e sensibilizzazione sul tumore al seno avanzato ‘E’ tempo di vita’, promossa da Novartis con Salute Donna Onlus e Sipo e con il patrocinio di Fondazione Aiom. Possono sembrare capisaldi ovvi, come amare se stessi, prendersi cura.
Ma quando un tumore al seno irrompe nella vita di una donna, e avanza incurante, distrugge anche le più solide certezze. Travolge famiglie intere. E infatti il decalogo ha un’altra faccia. “E’ quella dedicata ai caregiver”, spiega Paolo Gritti, presidente Sipo. Partner, figli, genitori, amici più intimi che devono imparare a essere pazienti, ma anche concedersi del riposo – recita il vademecum, presentato oggi a Milano con la campagna – condividere con lei le difficoltà quotidiane, fare da tramite nelle relazioni, chiedere aiuto, infondere fiducia, mantenere intimità, rispettare le sue scelte.
In queste storie di amore e malattia, “c’è la paziente e ci sono gli altri, vasi comunicanti, legati nella sofferenza. Insieme possono trovare soluzioni per vivere al meglio”, evidenzia lo specialista che è uno psico-oncologo, figura ancora poco diffusa, “non sempre presente all’interno delle strutture ospedaliere”, fa notare Anna Maria Mancuso, presidente di Salute Donna.
“C’è una doppia opportunità – continua Gritti – aiutare la donna che si batte contro un tumore al seno avanzato a rinnovare le proprie risorse e poi un versante più pubblico, cioè aiutarla ad abbandonare la solitudine”. Ma cosa succede davvero nella realtà quotidiana di queste donne? “Nella nostra lunga esperienza – racconta Mancuso – riscontriamo nel vissuto delle pazienti la solitudine, la poca attenzione a loro dedicata, la paura nell’affrontare il quotidiano”.
Mentre la donna accompagna sempre il partner malato, molti mariti e compagni “semplicemente non ci sono nei reparti in cui le pazienti affrontano le cure, tanto che i medici devono chiamarli al telefono per comunicazioni importanti”, altri invece “li vedi soli sostare per ore nei corridoi, in attesa”, raccontano Carmine Pinto, presidente nazionale dell’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom), e Fabrizio Nicolis, presidente della Fondazione Aiom. “Alcuni scappano via, soverchiati dalle responsabilità che si trovano sulle spalle”, dice ancora Mancuso.
Caregiver non si nasce, fanno notare gli esperti. Serve un intervento di supporto psicologico, che ancora manca, una guida. “Anche per loro è la solitudine a fare da padrone: si sentono spaesati e forse ancora più impauriti del malato stesso. Se per i pazienti oncologici c’è un’enorme carenza di assistenza psicologica, per loro è quasi inesistente”, continua Mancuso. “A volte il familiare è più spaventato e ansioso di chi vive la malattia. E questo si ripercuote sul modo in cui si rapporta con la paziente stessa”.
In generale, prosegue, “non si parla della malattia metastatica. Gli stessi oncologi che sono un punto di riferimento per le pazienti a volte ne parlano poco, per non trasmettere tensione ed emozioni che anche loro provano in quanto esseri umani. Negli ospedali che trattano queste neoplasie non sempre l’aspetto psicologico viene adeguatamente considerato, per tutti gli attori coinvolti nel percorso di malattia. Gli psico-oncologi sono ancora pochi, spesso retribuiti con borse di studio messe a disposizione dalle associazioni”. Le risorse “ci sono – le fa eco Gritti – ma non sempre sono adeguate in termini numerici. C’è poi tanto precariato e volontariato”.
La cultura va creata, sottolinea Pinto. “Una cultura sulla qualità che diamo alla quantità. Abbiamo sempre più soluzioni terapeutiche, sempre più mirate. Ma dobbiamo comprendere che ci sono bisogni non solo assistenziali, dobbiamo imparare a comunicare, e saper decidere. E bisogna fare in modo che un’assistenza oncologica completa venga garantita ovunque nel Paese, senza differenze geografiche che ancora esistono. Un’assistenza che tenga conto anche della parte sociale, in un contesto di disgregazione come quello di oggi”.
Cosa serve? Più psico-oncologi, interventi più strutturati e inclusivi, elencano gli esperti. Ma non solo. “C’è anche una parte burocratica che è faticosa da svolgere. Chi accompagna una paziente perde ore dietro alle pratiche – segnala Mancuso – Le istituzioni dovrebbero organizzarsi per la gestione di questa parte, perché i diritti previsti per legge devono essere garantiti e il tempo di vita non può essere perso per la burocrazia. Sarebbe già un passo avanti verso la riduzione della solitudine di pazienti e caregiver”. E ancora la formazione.
“Va sensibilizzato il personale che lavora nei reparti e che può diventare una guida che orienta -sottolinea Nicolis-. Stiamo lavorando per intercettare domande inespresse. E in considerazione dell’importanza dei caregiver, la Fondazione Aiom ha realizzato un manuale che verrà distribuito in occasione del prossimo Congresso nazionale degli oncologi italiani a Roma, a fine ottobre”. I giovani oncologi, aggiunge Stefania Gori, presidente eletto Aiom, “devono essere formati sull’importanza di concedere tempo all’ascolto, anche delle paure delle pazienti, davanti alle quali spesso si fugge”.
Oggi si può convivere con un tumore al seno avanzato per anni. “L’ideale sarebbe prendere in carico fin da subito la paziente e la sua rete di riferimento, scoprendo le fragilità e intervenendo -conclude Gritti-. Ma devono esserci le risorse. Spesso la donna che si ammala viene descritta come una spettatrice. La soluzione è farla diventare attrice che vive il suo tempo senza lasciare che passi”.