Dal polmone al cuore. E’ il ‘salto della barricata’ che potrebbe portare un farmaco attualmente in uso per la cura di una patologia polmonare a diventare il perno di una missione salvacuore: prevenire le aritmie maligne in pazienti nati sotto il segno della ‘sindrome del Qt lungo’, rara e pericolosa malattia congenita che può portare a morte improvvisa per arresto cardiaco. A gettare le basi per una possibile nuova terapia farmacologica è uno studio condotto da un team internazionale di scienziati, a guida italiana, che si è guadagnato le pagine dell”European Heart Journal’.
Sotto la lente del gruppo di ricerca – coordinato da Massimiliano Gnecchi, responsabile del Laboratorio di cardiologia sperimentale (Unità di terapia intensiva cardiologica) del Policlinico San Matteo di Pavia, e da Winston Shim del National Heart Center di Singapore – è finita la molecola lumacaftor. I risultati di questa collaborazione internazionale, resa possibile da un accordo formale tra gli atenei di Pavia e Singapore, sono stati ottenuti utilizzando una tecnologia all’avanguardia, quella delle cellule staminali pluripotenti indotte.
“Partendo da cellule della pelle prelevate con una semplice biopsia cutanea – spiega Gnecchi – siamo oggi in grado di generare in laboratorio cellule cardiache che possono essere utilizzate per studiare le cause che portano il cuore ad ammalarsi o per verificare l’efficacia di nuovi farmaci. Questa tecnologia permette oggi di effettuare studi impensabili solo pochi anni fa”.
In questo caso gli scienziati hanno “generato cellule cardiache da 5 paziente affetti da sindrome del Qt lungo, e dimostrato che il lumacaftor è in grado di normalizzare l’anomalia elettrica che caratterizza la patologia – continua Gnecchi – e ridurre il rischio aritmico in modo significativamente più efficace rispetto ai farmaci attualmente utilizzati per il trattamento di questi pazienti”. Questi dati, precisa, “dovranno essere confermati nei pazienti prima di poter trarre conclusioni definitive”. Ma è una nuova speranza che si apre.
Lo studio, al quale hanno contribuito 3 giovani ricercatrici dell’Irccs pavese (Manuela Mura, Federica Pisano e Maria Chiara Ciuffreda), è anche per gli esperti un esempio di medicina personalizzata, in cui si identifica una cura specifica per uno specifico difetto genetico. La cosiddetta medicina di precisione, puntualizza Gaetano De Ferrari, che al San Matteo dirige l’Unità di terapia intensiva cardiologica.
Lo studio coordinato da Gnecchi, sottolinea, “ha il vantaggio di aver utilizzato un farmaco già in commercio anche se per la cura di una patologia differente. Scoprire nuove indicazioni d’uso per farmaci il cui profilo di sicurezza è già noto permette di evitare lunghi e dispendiosi studi clinici, ed è una pratica incoraggiata dall’Organizzazione mondiale della sanità e dal ministero della Salute”.
Di certo, aggiunge De Ferrari, “lo studio ci consente di compiere un salto nel futuro delle cure mediche individualizzate. Applicare le nuove tecnologie alla cura del paziente è una sfida che può essere correttamente affrontata solo da ospedali di ricerca come il Policlinico. Solo in centri come il nostro esiste l’indispensabile multidisciplinarietà e ci sono medici in grado di integrare le nuove scoperte con il bagaglio di conoscenze sulle diverse patologie, anche quelle rare”.