Durante il solstizio d’inverno nelle terre celtiche precristiane si celebrava la festa di Yule, di origine germanica, col significato di ruota, forse con riferimento al fatto che, nel solstizio invernale, la ruota dell’anno si trova al suo estremo inferiore e inizia a risalire. Quei popoli erano intimamente legati al ciclo della natura, al centro del quale era posto il sole. Era proprio quest’ultimo a scandire i ritmi giornalieri e le condizioni di vita dell’uomo. Molto radicato era, infatti, il timore che il sole potesse non sorgere più, oltre alla paura di vederlo perdere forza in inveno, al punto da esorcizzarlo sempre con riti che avessero il compito di evitare che l’astro non si innalzasse più o lo aiutassero nel momento di minor forza. Durante la festa di Yule, periodo di riposo e di danze, venivano accesi fuochi che, simbolicamente, col loro calore e con la luce che emanavano, avrebbero ridato forza al sole indebolito.
Era questo il tempo in cui si sacrificavano animali, si banchettava insieme, si sfruttavano le ultime riserve di carne disponibili. Nel paganesimo e neopagaganesimo Yule, che rappresentava uno degli 8 Sabbat (8 giorni solari), era celebrata intorno al 21 dicembre nell’emisfero settentrionale e al 21 giugno in quello meridionale. Quando i missionari iniziarono la conversione dei popoli germanici, adattarono alla tradizione cistiana molti simboli e festività locali… un approccio suggerito alle autorità ecclesiastiche persino da Carlo Magno. Tra i simboli moderni del Natale che sembrerebbero derivare da Yule, l’uso decorativo del vischio, dell’agrifoglio e forse, dell’albero di Natale. I sempreverdi rappresentavano elementi fondamentali del solstizio invernale, come simbolo della persistenza della vita anche attraverso il freddo e l’oscurità.