SOS pazienti con scompenso cardiaco: educarli e non lasciarli soli

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Il cuore ‘stanco’ è una condizione che sconvolge a lungo termine la vita di chi ne è vittima. “Spesso non si considera, ma di scompenso cardiaco si muore in percentuale addirittura superiore ad alcune forme di cancro. E il paziente quando esce dall’ospedale si trova purtroppo solo“. A segnalarlo è il cardiologo Salvatore Di Somma, professore di Medicina interna nel Dipartimento di scienze medico-chirurgiche e di medicina traslazionale dell’università La Sapienza di Roma, e direttore del comitato scientifico dell’Aisc (Associazione italiana scompensati cardiaci).
Se si finisce in pronto soccorso per un episodio acuto – affanno, gonfiore, stanchezza – si trova una risposta immediata, un ricovero, un miglioramento con la terapia. Ma quando il paziente è fuori, la risposta diventa frammentaria. Il malato va dal medico curante, che magari è bravissimo ma non parla con l’ospedale o con i volontari. E invece in questi casi c’è bisogno di un’assistenza quotidiana“, spiega lo specialista all’AdnKronos Salute in occasione di un incontro promosso dall’Aisc a Milano in Regione Lombardia, con il contributo non condizionato di Novartis e Medtronic.
Per Di Somma “serve creare un network. Alla dimissione il paziente deve trovare il sostegno di un sistema di medici che gli dà visite accurate, deve essere messo in contatto con l’associazione dei pazienti per informazioni. Quello che manca è proprio una rete globale, che il paziente potrebbe creare insieme alle istituzioni“.
Durante la visita, osserva l’esperto, “il cardiologo si preoccupa di fare l’elettrocardiogramma, l’ecocardiogramma, la visita, verifica la terapia. E’ già moltissimo, però non si riesce per esempio dare anche istruzioni sull’alimentazione. Noi siamo fortunati perché in Italia abbiamo la dieta mediterranea, che ha dimostrato di avere un valore importante per il paziente con scompenso di cuore. E’ poi importante che il paziente sappia che si deve pesare sistematicamente, che deve prendere i farmaci con regolarità, avere una serie di attività fisiche che sono fondamentali per la sua patologia, essere a conoscenza dei farmaci innovativi e andare regolarmente dal medico per confrontarsi su questo. Deve trovare un’educazione“.
Proprio con questa missione, racconta Di Somma, è nata l’Aisc. “Qualche anno fa alcuni pazienti curati nel nostro ambulatorio si sono messi insieme e hanno creato l’associazione. E’ stato un successo: in 3 anni abbiamo raggiunto più di 3 mila iscritti fra pazienti, caregiver, infermieri e volontari che si sono dedicati a lavorare insieme a noi per cercare di migliorare le aspettative e la qualità di vita dei malati. Serve infatti un percorso formativo adeguato e costante che non si può esaurire solo nello studio del cardiologo durante la visita di routine, ma deve continuare fuori dall’ospedale“.
In realtà come la Lombardia, continua l’esperto, “l’opportunità è enorme perché i centri qualificati sono tantissimi. Quello che forse si può fare è cercare di metterli in rete con la partecipazione anche del paziente, creando una struttura in ogni centro, uno spazio per le associazioni, dove i pazienti possono fare proselitismo fra loro. Penso che dedicarsi alle cronicità con un piano innovativo che vede riunioni periodiche tra i centri di cardiologia, il medico del territorio, i pazienti, i caregiver, i volontari possa essere un modo diverso e di grande valore per affrontare le cronicità. Oggi la risposta immediata al paziente acuto è perfetta, però dopo non basta il centro eccellente: ci vogliono modelli di telemedicina e un sistema di comunicazione fra tutti gli attori, prima di tutto il paziente che riteniamo sia l’attore protagonista della sua cronicità“.
Più si conoscono le varie modalità di gestione dello scompenso, più si può far ridurre la richiesta di ospedalizzazione e la necessità di cure in acuto. E’ importante anche valorizzare i caregiver. La notizia di investimenti dedicati in arrivo” con la prossima manovra “è importante, potrebbe essere un’opportunità per le patologie croniche. In tutte queste direzioni – conclude Di Somma – bisogna cercare di fare di più“.

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