Cosa fare se si soffre di malattie cardiovascolari e si desidera andare in alta montagna? Non c’è una sola risposta: bisogna considerare da un lato aspetti ambientali come la velocità di salita, la quota da raggiungere e la temperatura, dall’altro caratteristiche personali relative ad allenamento, storia clinica, stabilità dei problemi cardiovascolari, terapie in corso ed esami diagnostici recenti. Fra le prime raccomandazioni degli esperti emerge la necessità di valutare insieme al medico le proprie condizioni fisiche.
Una risposta ufficiale e documentata arriva ora dal gruppo di ricerca di Gianfranco Parati, professore di Medicina cardiovascolare all’Università di Milano-Bicocca e direttore dell’Unità operativa di cardiologia dell’Auxologico San Luca di Milano, che studia questa problematica dal 2004 con spedizioni in quota in varie parti del mondo, compreso l’Everest. Con il titolo “Raccomandazioni cliniche per l’esposizione ad alta quota di individui con condizioni cardiovascolari preesistenti” è stato infatti recentemente pubblicato un “consensus document” su una delle più prestigiose riviste cardiologiche internazionali, lo European Heart Journal (G. Parati, P. Agostoni, B. Basnyat, G. Bilo, H. Brugger, A. Coca, L. Festi, G. Giardini, A. Lironcurti, A.M. Luks, M. Maggiorini, P.A. Modesti, E.R. Swenson, B. Williams, P. Bärtsch, C. Torlasco, Clinical recommendations for high altitude exposure of individuals with pre-existing cardiovascular conditions).
«Si tratta di raccomandazioni estratte da numerosi studi – spiega Gianfranco Parati – che abbiamo analizzato grazie ad una estesa ricerca nella letteratura del settore, per dare raccomandazioni che non fossero semplicemente opinioni personali ma consigli basati su evidenze scientifiche, incluse quelle ricavate dai nostri progetti “HighCare” sul campo in alta quota. Ne emerge un ventaglio di raccomandazioni che tengono in considerazione da un lato aspetti ambientali come velocità di salita, quota raggiunta, temperatura o il fatto di dormire in quota, e dall’altro aspetti personali come allenamento, storia clinica, stabilità dei problemi cardiovascolari, terapia in corso, esami diagnostici recenti, training precedente, preparazione fisica e clinica».
Dallo studio pubblicato si evidenzia quindi la necessità di personalizzare quanto più e meglio possibile le raccomandazioni e gli accorgimenti medici per il paziente cardiopatico amante dell’alta montagna, ma quali sono le indicazioni generalizzabili, valide per tutti? «Occorre prepararsi fisicamente – risponde il professor Parati – e valutare con il proprio medico la propria condizione, per individualizzare il consiglio. Bisogna effettuare una precisa stima del livello di rischio cardiovascolare individuale prima di avventurarsi, anche perché alcuni problemi possono essere subclinici, cioè ancora non manifesti. Occorre inoltre prevedere un adeguamento della terapia nei soggetti più a rischio. In altre parole, vi sono raccomandazioni generali sulle procedure e sulla prudenza da esercitare, ma poi i consigli debbono essere individuali, basati sulle condizioni del singolo, e devono prevedere un’interazione con il medico e con lo specialista esperto di medicina di montagna. Il paziente cardiologico non deve necessariamente privarsi del piacere della montagna, ma la deve affrontare con serietà, consapevolezza, prudenza e preparazione, basandosi su dati scientifici e sulla propria storia personale».
Ma in cosa consiste e come si manifesta il rischio d’alta quota in chi è portatore di problematiche cardiovascolari? «L’esposizione ad alta quota, definita come una quota maggiore di 2500 metri sul livello del mare – spiega la dottoressa Camilla Torlasco, co-autrice dello studio, che si occupa di ricerca presso l’Auxologico di Milano e l’Università di Milano-Bicocca – comporta uno sforzo da parte dell’organismo per adattarsi. Ciò dipende dalla serie di modificazioni ambientali di intensità progressiva che si osservano all’aumentare dell’altitudine. Fra queste, la più rilevante in termini di effetti sull’organismo è la riduzione della pressione barometrica o atmosferica, cioè la pressione determinata dal “peso” della colonna d’aria presente al di sopra del punto di misura: al ridursi della pressione barometrica si osserva una “rarefazione” delle molecole presenti nell’aria (azoto, ossigeno, anidride carbonica), che porta al fenomeno noto come “ipossia ipobarica”. In sostanza, l’organismo registra una carenza di ossigeno e deve mettere in atto delle misure per contrastarla. In una persona esposta a ipossia ipobarica, e quindi durante il soggiorno in alta quota, possiamo osservare un aumento della frequenza cardiaca, della frequenza respiratoria, della pressione arteriosa e polmonare; si osserva inoltre una riduzione dell’ossigeno e dell’anidride carbonica nel sangue e, talvolta, la comparsa di apnee del sonno. Dopo un periodo di tempo variabile in base alle condizioni di partenza del soggetto (età, sesso, indice di massa corporea, eventuali patologie, terapia farmacologica in corso eccetera) e alla quota a cui ci si espone, l’organismo raggiunge un nuovo punto di equilibrio nel quale si è “adattato” alla quota a cui si trova. Questo processo è noto come “acclimatamento”. Nel caso di persone con pregresse patologie cardiache, vascolari o polmonari, l’esposizione ad alta quota può essere pericolosa, perché all’organismo, già indebolito dalla patologia di base, viene richiesto uno sforzo importante di adattamento. Da qui la necessità di valutare caso per caso il grado di stabilità del quadro clinico e la capacità di adattamento del cuore e dell’apparato vascolare. Questo può comportare la necessità di rivalutare la terapia in atto, in collaborazione con il proprio medico e con uno specialista adeguatamente preparato su questi temi».