Solo il 57% dei pazienti colpiti da cancro riferisce al medico i piccoli disturbi legati alla malattia o alle terapie, contro il 98% che affronta con l’oncologo gli effetti collaterali ritenuti rilevanti. Spossatezza, nervosismo, difficoltà ad addormentarsi, lieve dissenteria, mancanza di appetito, gonfiore e secchezza vaginale sono piccoli fastidi molto frequenti fra i pazienti oncologici italiani, che sembrano però restare nella terra di nessuno. Il 54%, infatti, ritiene che il medico di famiglia non sia un interlocutore adeguato sulle neoplasie e il 79% lamenta l’assenza di dialogo fra oncologi e medici del territorio. E solo il 9% si rivolge al farmacista di fiducia per avere consigli su come affrontare questi disturbi. È la fotografia che Fondazione AIOM e AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) hanno scattato con la prima fase del progetto nazionale “I nuovi bisogni del paziente oncologico e la sua qualità di vita”, presentato oggi al Senato in un convegno nazionale e realizzato con il contributo incondizionato di Bristol-Myers Squibb. “Nel nostro Paese – spiega Stefania Gori, presidente nazionale AIOM e direttore del dipartimento oncologico dell’Ospedale Sacro Cuore-Don Calabria, Negrar-Verona – vivono più di 3 milioni e trecentomila persone dopo la diagnosi di tumore, una percentuale in costante aumento, addirittura il 24% in più rispetto al 2010. E la malattia sta diventando sempre più cronica grazie a armi efficaci come l’immuno-oncologia e le terapie a bersaglio molecolare che si aggiungono a chirurgia, chemioterapia, ormonoterapia e radioterapia. Evidenti i risultati raggiunti in alcune delle neoplasie più frequenti: la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi raggiunge il 91% nel tumore della prostata, l’87% nel seno, il 79% nella vescica e il 65% nel colon-retto”. “Questi cittadini presentano nuovi bisogni, impensabili fino a dieci anni fa – aggiunge Fabrizio Nicolis, presidente di Fondazione AIOM – di fronte ai quali gli operatori sanitari sono spesso impreparati. Da un lato, gli specialisti raramente vengono coinvolti dai pazienti nella gestione di questi piccoli effetti collaterali, dall’altro ai medici di famiglia, come ai farmacisti, non vengono offerti gli strumenti necessari per fornire risposte adeguate. Con la conseguenza che i pazienti e i loro familiari si muovono troppo spesso in modo autonomo cercando soluzioni prive di basi scientifiche. Vogliamo invece creare una nuova alleanza fra oncologi, medici di famiglia e farmacisti per gestire e trasferire sul territorio la cura di questi aspetti. Per questo siamo partiti coi sondaggi e i focus con tutte le figure coinvolte, iniziando proprio dai pazienti: è il primo progetto di questo tipo in Italia che può portare ad un concreto miglioramento della qualità di vita dei malati e dei loro familiari, con un consistente risparmio per il sistema sanitario nazionale, grazie alla diminuzione di visite specialistiche, spesso non più necessarie, con la possibilità di liberare risorse per rendere disponibili le terapie innovative a tutti i malati in tempi brevi”.
L’82% degli oncologi dichiara di essere preparato nella gestione di queste problematiche. Però il 39% evidenzia la sottovalutazione da parte degli stessi clinici di questi disturbi, che per il 52% possono influenzare in senso negativo l’adesione ai trattamenti. “Negli ultimi anni è aumentata l’attenzione delle persone colpite dal cancro su questi aspetti, come evidenziato dall’82% dei medici di famiglia e dall’89% degli oncologi – sottolinea Nicolis -. I pazienti rivolgono sempre più spesso domande sulla dieta da seguire, l’attività fisica che possono praticare e il senso di disagio psicologico con cui sono spesso costretti a convivere. Per questo è fondamentale migliorare il livello di consapevolezza di tutti gli attori coinvolti. Il nostro progetto vuole infatti creare rapporti di collaborazione strutturati e preferenziali fra centri oncologici, medicina del territorio, farmacisti che vadano oltre le visite di controllo successive alla fase acuta della malattia”. Il 93% dei medici di famiglia afferma, infatti, di non avere a disposizione un canale diretto (ad esempio un numero verde dedicato) che facili il dialogo con lo specialista. “Il 72% dei medici di medicina generale, su 1.500 assistiti, segue in media fra 50 e 100 pazienti oncologici – afferma Andrea Salvetti, responsabile oncologia della SIMG (Società Italiana di Medicina Generale, presieduta da Claudio Cricelli) -. Una situazione impensabile solo dieci anni fa, quando questa percentuale era molto contenuta. Dopo la diagnosi, i pazienti o i familiari si recano dal medico di famiglia per informarlo della nuova condizione di malattia. Nel 75% dei casi chiedono dove rivolgersi e quale centro preferire. Il rimanente 25% ha già scelto il percorso di cura. Dopo questo primo momento della comunicazione della diagnosi, il medico di famiglia ha rapporti quasi saltuari con il malato, che è preso in carico dallo specialista. La relazione viene ristabilita quando il paziente torna a casa, una volta terminata la fase acuta della malattia. Un documento dettagliato del centro specialistico informa il medico di famiglia sulle terapie somministrate e sugli eventuali effetti collaterali. Questo report è fondamentale, perché negli ultimi anni sono state rese disponibili molte nuove molecole e non sempre le conosciamo. Infatti il 66% ritiene scarso il proprio livello di conoscenza delle terapie innovative”. La reciproca collaborazione nella gestione dei piccoli disturbi è considerata scarsa o sufficiente dal 76% degli oncologi e dal 73% dei medici di famiglia. “Molto è lasciato alle conoscenze personali del centro oncologico di riferimento della zona – sottolinea Salvetti -. Talvolta siamo costretti a comporre più volte il numero del centralino dell’ospedale, sperando di intercettare prima o poi un collega oncologo”.
“Lo specialista è il principale punto di riferimento nella gestione degli effetti collaterali – spiega Elisabetta Iannelli, vicepresidente Aimac (Associazione Italiana Malati di Cancro) e componente del CdA di Fondazione AIOM -. Spesso però il paziente, per timore o insicurezza, preferisce non parlare dei piccoli disturbi che non hanno rilevanza clinica determinante, ma sono in grado di peggiorare la qualità di vita e, oggi, non trovano capacità d’ascolto, giusta attenzione e adeguate risposte. Uno strumento che potrebbe facilitare la comunicazione di questi disturbi è costituito dai PRO-CTCAE (Patient Reported Outcomes – Common Terminology Criteria for Adverse Event): un questionario, utilizzato nelle ricerche cliniche negli USA e in altri Paesi (la versione italiana è stata validata lo scorso giugno), con cui il paziente segnala in autonomia e in maniera dettagliata gli effetti collaterali dei trattamenti anti-tumorali”.
Il 16% dei pazienti giudica “buona” la propria qualità di vita con le terapie, il 24% “abbastanza buona” e il 26% la ritiene “faticosa ma soddisfacente”. “Una maggiore attenzione ai disturbi leggeri come spossatezza, nervosismo o secchezza vaginale avrebbe un impatto sicuramente positivo sulla quotidianità – afferma Rita Vetere, vicepresidente di ‘Salute Donna Onlus’, associazione che fa parte del CdA di Fondazione AIOM -. Per cercare soluzioni, i pazienti ricorrono a internet: con continuità il 20%, spesso il 16%, qualche volta il 42%. Il rischio però è di incorrere in fonti non certificate e nei ciarlatani che sfruttano le difficoltà determinate da una diagnosi seria. Il passaggio della gestione di questi problemi al territorio può costituire un argine anche contro le cosiddette fake news”. “Il pieno ritorno a una vita come prima – spiega Claudia Santangelo, presidente di ‘Vivere Senza Stomaco (si può!)’ e componente del CdA di Fondazione AIOM – implica l’attenzione anche ai piccoli disturbi. Si è guariti quando vengono ripristinate le condizioni di vita presenti prima dell’insorgenza della malattia e se vi è il recupero della condizione di benessere fisico, psichico e sociale. Un percorso che inizia a partire dal momento in cui la persona entra nell’ospedale e che deve continuare sul territorio dopo la fase acuta della malattia”.
“Negli anni Settanta solo poco più del 30% delle persone colpite riusciva a sconfiggere il cancro – continua Alessandro Comandone, Direttore Oncologia Medica all’Ospedale Humanitas Gradenigo di Torino -, negli anni Novanta questa percentuale arrivava al 47%, oggi 6 persone su dieci sono vive a 5 anni dalla diagnosi e, quando non si arriva a guarigione, in molti casi è possibile convivere a lungo termine con la malattia con una buona qualità di vita. Quello che chiede il paziente, anche se guarito, è di continuare a mantenere i rapporti con il Centro Oncologico per far fronte ai molti problemi che si presentano pur a distanza di anni dalla fine della terapia. Ma il crescente numero dei malati e l’esiguo numero degli oncologi rendono molto difficile affrontare queste tematiche e garantire un appoggio costante. L’unica soluzione è di varare un piano nazionale sulla cronicità che, con collaborazioni multidisciplinari e con la stretta alleanza con le Associazioni dei Pazienti, possa affrontare i problemi della lungosopravvivenza e della cronicizzazione della malattia cancro. Solo in questo modo il malato o ex malato potrà essere accompagnato anche per anni dopo la fine dei trattamenti”.
Il progetto prevede anche il coinvolgimento delle farmacie, per facilitare una distribuzione capillare sul territorio degli attori in grado di supportare i malati. Oggi il 68% dei pazienti non li ritiene interlocutori affidabili per chiedere consigli su questi temi. “Il farmacista in farmacia non fa il medico, il suo ruolo è quello di traduttore di senso, deve spiegare le terapie non integrarle soprattutto in situazioni delicate tenute sotto controllo medico – conclude Paolo Vintani, vicepresidente Federfarma Milano -. Il 59% dei farmacisti dichiara di non sentirsi completamente pronto a consigliare al paziente il giusto percorso per risolvere i piccoli disturbi, soprattutto perché i farmaci oncologici non passano attraverso la farmacia e quindi non abbiamo occasione di conoscere le loro interazioni. Il 92% delle farmacie vorrebbe maggiori informazioni. La creazione di un percorso strutturato con gli oncologi e i medici di famiglia può creare le condizioni per una reale reintegrazione dei cittadini colpiti dal cancro nella società e nel mondo del lavoro”.
Tumori: solo il 57% dei pazienti riferisce al medico i piccoli disturbi
MeteoWeb