I contraccettivi ormonali combinati (Chc), quelli cioè a base di estrogeno e progestinico, sono i metodi di contraccezione più utilizzati nel mondo, ma spesso sono accusati di favorire la comparsa di tumore al seno. Uno studio li ‘assolve’: la ricerca è stata condotta dall’università degli Studi di Modena e Reggio Emilia.
Lo studio ha riguardato un campione di 2.527 donne a rischio familiare di tumore al seno, anche portatrici della mutazione Brca, quello dell’attrice Angelina Jolie. E l’analisi retrospettiva di coorte ha rilevato che l’uso di contraccettivi ormonali combinati non aumenta il rischio di tumore al seno, anche in caso di gruppi ad alto rischio e a rischio intermedio.
Ginecologi e oncologi del Centro per lo studio dei tumori eredo-familiari dell’azienda ospedaliero-universitaria Policlinico di Modena, una delle più grandi cliniche oncologiche italiane istituita per la gestione della prevenzione primaria e secondaria nelle donne ad alto rischio, hanno eseguito una revisione delle cartelle cliniche di 2.527 donne che avevano partecipato allo screening di valutazione oncologica (4,5% portatrici di mutazione Brca, 72,2% ad alto rischio e 23,3% a rischio intermedio di sviluppo di tumore al seno). Il 10,1% di queste pazienti aveva già presentato un tumore al seno prima dei 50 anni.
In tutta questa popolazione si è osservato che il menarca tardivo, dopo i 12 anni, risultava un fattore protettivo, mentre la tarda età della prima gravidanza (oltre 30 anni) era un fattore di rischio indipendente per tumore al seno. Dall’incrocio di tutte le informazioni e di tutti i dati raccolti, valutando anche gli anni con esposizione diretta ai Chc, il loro uso non è stato associato ad un aumento del rischio di tumore al seno, anche in presenza di predisposizione genetica o familiare, e indipendentemente dalla durata d’uso dei contraccettivi e dalle dosi di estrogeni utilizzati. Anzi, alcuni contraccettivi comunemente usati erano associati a una tendenza, a volte significativa, verso un rischio diminuito di tumore al seno.