Alle 01:24 del 26 aprile 1986 un guasto al reattore numero 4 della centrale atomica di Chernobyl, nei pressi di Kiev in Ucraina, provoca il più grande incidente della storia dell’energia nucleare.
La nube radioattiva che si sviluppa investe tutta l’Europa provocando una serie di conseguenze nella popolazione.
Nelle settimane successive allo scoppio, a causa delle radiazioni, furono trentuno i lavoratori della centrale e i pompieri che persero la vita tra atroci sofferenze. Ma il numero esatto delle vittime “collaterali” del disastro nucleare è tutt’oggi incerto e non vi è ormai più alcun modo di stabilire con certezza i morti diretti, ma soprattutto quelli indiretti, deceduti in seguito, a causa di malattie.
Sono decine di migliaia le persone che si ammalarono a causa delle radiazioni dovute all’esplosione, le cui conseguenze furono inevitabili e devastanti.
Solo il 27 aprile, 36 ore dopo l’incidente, furono evacuati i 45mila abitanti di Pripyat, la cittadina a un passo da Chernobyl e nei giorni successivi circa 130 mila persone in un raggio di 30 km dovettero lasciare le proprie case. In totale successivamente furono circa 350 mila le persone evacuate dalla regione e costrette a trasferirsi altrove. L’allarme in Europa giunse dalla Svezia il 28 aprile, quando venne registrata radioattività anomala nel Paese. Nei primi dieci giorni successivi alla catastrofe si tentò con ogni mezzo di fermare la fuga radioattiva: elicotteri militari versarono oltre 1800 tonnellate di sabbia e 2400 di piombo sul reattore, ma solo il 6 maggio la situazione fu sotto controllo. Migliaia le persone che parteciparono alle operazioni, tra militari e civili. Si calcola che i “liquidatori“, operai, pompieri, soldati, reclutati e volontari, siano stati nei mesi seguenti circa 700 mila, provenienti non solo da Ucraina, ma anche da Russia e Bielorussia, repubbliche che all’epoca dell’incidente facevano parte appunto dell’Unione Sovietica. Da Mosca l’ammissione del disastro arrivo solo il 14 maggio da parte del segretario dell’allora Partito comunista sovietico Mikhail Gorbaciov.
Secondo l’Iaea furono circa 4000 le vittime causate direttamente dalle radiazioni, tra di essi in larga parte i cosiddetti “early liquidators”, coloro cioè che lavorarono per primi tentando di tamponare i danni dopo l’esplosione. Cifre non ufficiali alzano il numero dei morti sino a 25 mila in tutti e tre i Paesi (Ucraina, Bielorussia e Russia) investiti dalla nube radioattiva. Ma certezze non ve ne sono, nemmeno per i numeri delle persone colpite da malattie – cifre sempre non ufficiali indicano 100 mila casi di tumore alla tiroide per persone di tutte le età nelle tre ex repubbliche sovietiche – e da disturbi psicologici che possono aver interessato i cinque milioni di persone che anche per un breve periodo sono state esposti a radiazioni sopra la norma appena in seguito alla catastrofe.