C’è una parola d’ordine che sta animando l’attività della comunità scientifica mondiale: è ‘de-escalation’. Significa lavorare per ridurre le dosi e i trattamenti adiuvanti (i farmaci per ridurre il rischio di recidiva) per le donne con tumore iniziale.
“Nell’ultimo anno, dopo un vertice a Viene, gli oncologi a livello internazionale si sono concentrati su questa sfida. Abbiamo visto che ci sono farmaci che funzionano bene anche a dosaggi più bassi e che alcune neoplasie nell’ambito del cancro al seno rispondono meglio ai trattamenti che durano meno”.
Ed è caccia alle firme genomiche, ‘mix di geni’ in grado di funzionare come marker di buona prognosi. A raccontare della nuova strada imboccata dalla ricerca è Elisabetta Munzone, oncologa della Divisione di senologia medica dell’Istituto europeo di oncologia, oggi a Milano in occasione dell’ormai tradizionale incontro annuale ‘Ieo per le donne’ con mille pazienti curate nell’Irccs per un tumore al seno.
Un momento di ascolto, ma anche per fare il punto sull’orientamento delle nuove terapie. “Sappiamo che il tumore al seno oggi ha percentuali di sopravvivenza che sfiorano il 100% in caso di tumore iniziale – ha spiegato Paolo Veronesi, direttore del Programma senologia dell’Ieo – Abbiamo quindi il dovere di pensare più in là del sopravvivere e far sì che la donna torni a vivere una vita piena”.
Per raggiungere questo obiettivo, ha continuato il senologo, “abbiamo tre vie da percorrere: la direzione ‘chemio free’, cioè l’utilizzo delle nuove terapie che riducono al minimo la tossicità sull’organismo, evitando ove possibile la chemioterapia; lo sviluppo dell’offerta di cure integrative (psicologia, sessuologia, agopuntura e così via); la formazione degli oncologi a un rapporto con i pazienti basato sulla continuità dell’ascolto, perché una visita o un trattamento oncologico oggi non chiudono un rapporto, ma lo iniziano”.
Sul fronte delle terapie innovative, c’è dunque la missione de-escalation. Si è osservato, ha approfondito Munzone, che le pazienti con tumori molto piccoli e senza interessamento dei linfonodi hanno generalmente un’ottima prognosi, anche se “il tumore in questione è un triplo negativo, che è una forma molto aggressiva e di prassi richiede la chemioterapia”.
I ricercatori stanno dunque lavorando alla ricerca di firme genomiche che possano permettere di selezionare le pazienti che potrebbero essere curate con trattamenti meno intensivi. L’Ieo, in particolare, sta mettendo a punto un test genomico che potrebbe determinare chi è a minor rischio di recidiva. Su questa base nei prossimi mesi verrà avviato uno studio clinico per identificare il sottogruppo di pazienti che potrebbe evitare di ricevere la chemioterapia anche in caso di tumore triplo negativo, di grandezza inferiore al centimetro.
“Con l’aiuto di un algoritmo – ha continuato l’esperta – si potrebbero stratificare le donne in base a un punteggio di rischio. E selezionare le pazienti che non hanno bisogno di chemio”. Lo screening genetico è poi al centro di un progetto che ha anche profili legati alla prevenzione. “Analizzando un pannello di geni”, con piattaforme a tecnologia avanzata in grado di studiarne “un numero superiore a quelli più noti”, geni associati alla predisposizione al tumore e all’evoluzione tumorale e alla risposta ai trattamenti, “si può capire il rischio di ammalarsi per i familiari di donne con tumore ovarico e con tumore al seno triplo negativo”, ha spiegato Viviana Galimberti, coordinatrice di Ieo Women’s Cancer Center. Ma anche, ha concluso, “studiando le alterazioni genetiche del tumore quali farmaci bersaglio utilizzare” per una terapia più efficace.