Diabete: una bevanda molto nota ne riduce il rischio del 30%

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Il diabete di tipo 2, una delle patologie più diffuse del terzo millennio, è una malattia cronica caratterizzata da una notevole concentrazione di glucosio nel sangue. Ciò si verifica a causa di una carenza (assoluta o relativa) di insulina nell’organismo umano, ormone che diminuisce la concentrazione di glucosio nel sangue.

Tanti sono gli studi che tentano di individuarne una cura definitiva e dei rimedi efficaci per prevenire la patologia. In particolare una ricerca, pubblicata su Nutrition Reviews, ha evidenziato come una bevanda molto nota e diffusa, ossia il caffè, riduce il rischio di sviluppare diabete di tipo 2 di circa il 30%.

La ricerca ha permesso la stesura di un nuovo documento di revisione in cui sono stati esaminati 30 studi scientifici su una popolazione di 1,2 milioni di persone. Il rischio di sviluppare il diabete di tipo 2 diminuirebbe rispettivamente del 7% in caso di caffè con caffeina e del 6% in caso di caffè decaffeinato per tazza al giorno.

Gli autori dello studio hanno esaminato i meccanismi biochimici della bevanda: in particolare, è stato rilevato che grazie alle sue proprietà antiossidanti, l’assunzione a lungo termine della bevanda nera è in grado di ridurre lo stress ossidativo, associato, oltre che a numerosi effetti avversi sulle funzioni cardiovascolari, metaboliche e renali, anche all’insorgenza di diabete di tipo 2.

Numerose ricerche hanno inoltre dimostrato che il consumo regolare di caffè può ridurre i livelli dei marcatori pro-infiammatori e di conseguenza l’infiammazione cronica di basso grado, che è stata collegata a disturbi cardiovascolari e metabolici, come il diabete di tipo 2. Nel 2016 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha rimosso il caffè dalla lista dei possibili cancerogeni per gli esseri umani e numerose ricerche scientifiche affermano che il consumo moderato, 3-5 tazzine al giorno, è protettivo verso una serie di patologie come il tumore al fegato e all’endometrio. E riduce fino al 27% il rischio di sviluppare il morbo di Alzheimer. Gli autori della review sottolineano comunque che sono necessari studi a lungo termine per confermare l’associazione protettiva e per approfondire i meccanismi della relazione.

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