Tra gli integratori maggiormente assunti, senza dubbio quello di vitamina D la fa da padrone. Si tratta infatti di un elemento fondamentale per la salute del corpo e oggi, sopratutto le nuove generazioni, complici gli impegni e le moderne tecnologie, sono notevolmente a rischio di carenza vitamina D. Sempre più rara infatti l’abitudine a uscire e giocare all’aperto.
“L’ipovitaminosi, la carenza di vitamina D, è una manifestazione estremamente diffusa nella popolazione a livello mondiale. Anche in Italia, soprattutto nella popolazione anziana che meno si espone al sole. Ma la cosa preoccupante è che ormai questo fenomeno non è solo limitato” alle ‘tempie grigie’, ma “tocca anche i giovani che tendono oggi ad adottare uno stile di vita che non li espone frequentemente al sole”. Lo spiega Andrea Giustina, professore ordinario di endocrinologia al San Raffaele di Milano e presidente di Gioseg (Glucocorticoid Induced Osteoporosis Skeletal Endocrinology Group), in occasione del 7° Clinical update in endocrinologia e metabolismo (Cuem) svoltosi a Milano.
Tra i temi affrontati, anche appunto la carenza di vitamina D.
“Si calcola che più del 90% degli anziani che vivono in casa di riposo abbiano delle gravi deficienze di vitamina D. Ma, in particolare nel periodo invernale quando già di base l’esposizione al sole è ridotta, ci sono forti probabilità che anche persone giovani possano avere delle ipovitaminosi D importanti. Mediamente – stima l’esperto – almeno la metà della popolazione, indipendentemente dal sesso e dall’età“, durante la stagione più fredda “presenta bassi livelli circolanti di vitamina D. Anche i bambini. Nelle nuove generazioni ormai si è abbandonata l’abitudine di esporsi al sole”.
Il pieno di mare nei mesi estivi non basta a bilanciare, e dovendo proteggere la pelle “con creme solari particolarmente ad alta protezione, si riduce il beneficio sulla produzione di vitamina D”.
I ragazzi sono a rischio ipovitaminosi D “anche perché nella dieta la vitamina D non è particolarmente ben rappresentata – prosegue Giustina – Spesso si cade nell’equivoco di vedere la vitamina D come nutriente, come vitamina in senso stretto, ma si tratta di un ormone e nel cibo non ce n’è una quantità sufficiente. Quindi, se si vuole introdurre della vitamina D” per via alimentare, “bisogna fortificare i cibi come fanno le popolazioni del Nord Europa. Tanto è vero che oggi ci troviamo di fronte al cosiddetto paradosso scandinavo: i Paesi di quest’area geografica, nonostante non abbiano un’importante esposizione alla luce solare, presentano – proprio per l’abitudine di fortificare i cibi – valori circolanti della vitamina D superiori a quelli di Paesi mediterranei come l’Italia, la Grecia e la Spagna”.
Da un lato “la formica” che mette da parte le scorte, dall’altro “la cicala” che spreca la sua ricchezza. Questa la similitudine scelta dallo specialista. “Noi, pur essendo il Paese del sole, presentiamo una grave e frequente presenza di ipovitaminosi D, al contrario dei Paesi scandinavi”.
“Questo ormone – ricorda lo specialista – viene prodotto dalla pelle in seguito all’esposizione solare e deve essere poi metabolizzato all’interno dell’organismo prima livello epatico e poi a livello renale. Solo dopo la vitamina D è attiva. La sua attività consiste principalmente nel facilitare l’assorbimento di calcio presente nella dieta e nel facilitarne il deposito a livello scheletrico. E’ un ormone strategico per la resistenza dell’osso – conclude Giustina – E se i livelli sono bassi, dare la vitamina D può veramente fare la differenza”.