Arrivano dalla rete attraverso gruppi segreti e basta un tag di un amico per accendere il bisogno di accettare la sfida. I ragazzi le chiamano “challenge” e in effetti sono percorsi a ostacoli, che impongono la sfida di superarli per dimostrare al gruppo quanto si è forti.
Andare oltre e mettersi alla prova rientra nelle caratteristiche degli adolescenti ed è il loro modo per entrare nel mondo adulto e farsi strada affrancandosi dalla famiglia. Ma in questo caso c’è un pensiero distorto, una propensione a spingersi oltre il confine senza conoscere le conseguenze a cui si può andare incontro.
L’ultima in ordine di tempo che è costata la vita a un giovane di appena quattordici anni di Milano è la Blackout Challenge. Non si tratta di istigazione al suicidio, in questo caso specifico, ma di gioco finito in tragedia. Il “gioco” consiste nel comprimere la carotide per provocare uno stato temporaneo di soffocamento. Lo scopo è indurre lo svenimento per provare l’euforia del risveglio. E se qualcosa non va?
“Sono frequenti le notizie di sfide – spiega Marco Bernardi, psicologo psicoterapeuta e responsabile del Centro Studi di Pepita Onlus – diffuse online in cui il “gioco” consiste nel farsi del male, nel ferire il proprio corpo e nei modi più disparati. Purtroppo in alcuni casi tutto questo porta alla morte, ma sarebbe sbagliato pensarle come a dei modi per togliersi la vita. Gli studi, soprattutto nel campo psicoanalitico, ci dicono che è certo che chi si ferisce lo fa per un motivo che ha poco o nulla a che fare con l’idea di togliersi la vita. I motivi sono profondi, riguardano il rapporto con il proprio corpo, con gli aspetti inconsci della persona”.
Secondo ultime ricerche in campo psicoanalitico, i ragazzi, e soprattutto le ragazze, solitamente si feriscono per negare la separazione o la perdita (mi rifiuto di accettare la perdita di una relazione che prima avevo e che ora non ho più); coprire un corpo vissuto con vergogna o attaccarlo perché vissuto come estraneo; tentare una separazione (se mi taglio, “taglio” anche un cordone ombelicale che mi opprime); affrontare un senso interno di frammentazione.
“Tutto questo – prosegue Bernardi – può riguardare da vicino un adolescente, impegnato com’è nell’affrontare quei compiti evolutivi che riguardano la separazione e la definizione di sé, la mentalizzazione del proprio nuovo corpo sessuato e la costruzione di un’identità coesa. Un atto autolesivo può trasformare una sofferenza psichica in fisica, in modo da poterla tenere sotto controllo e comunicare senza parole”.
La potenza mediatica della rete e dei social network, in questo caso, che avvicinano senza creare una relazione reale e stabile, rende il gesto pubblico e visibile a chiunque.
“Noi adulti – commenta Ivano Zoppi, Presidente di Pepita Onlus e Cuore e Parole e Direttore della Fondazione Carolina – non possiamo stigmatizzare il gesto, considerandolo fuori dagli schemi. Occorre leggere il disagio tra le righe, senza avere il timore di parlare di argomenti forti con i ragazzi. Apriamo con loro il dialogo e rispettiamo i loro spazi”.
Come possono prepararsi i genitori? Ecco alcuni consigli stilati dall’équipe del Centro Studi di Pepita Onlus, da oltre quindici anni impegnata nell’avventura dell’educare e nell’affrontare i disagi adolescenziali nelle scuole e in tutte le realtà educative attraverso modelli interattivi che aiutano i ragazzi a responsabilizzarsi.
- Avviare il dialogo quando i bambini sono molto piccoli, mettendo al centro l’importanza del gioco come strumento di relazione;
- Capire momenti giusti e rispettare gli spazi dei figli adolescenti, tenendo questo dialogo attivo;
- Osservare a distanza comportamenti anomali e sofferenze: quando si chiudono in camera troppo a lungo, on escono con gli amici, cambiano umore;
- Vigilare sui loro profili social e con loro concordare tempi e modi di utilizzo, stabilendo insieme regole, ricordando loro che siete voi genitori gli intestatari del contratto e i proprietari dello smartphone e l’utilizzo da parte loro e una vostra concessione;
- Aprire la propria casa ai loro amici per parlare insieme attorno a un tavolo e comunicare stabilità e fiducia;
- Cercare l’alleanza educativa con docenti a scuola, condividendo la responsabilità educativa senza demandarla, a vantaggio dei vostri figli, che altrimenti giocheranno sulla distanza tra le parti per evitare il dialogo.