Eluana Englaro era nata a Lecco il 25 novembre 1970 e morì a Udine nel 2009 dopo 17 anni di stato vegetativo. La sua morte arrivò per disidratazione, dopo l’interruzione della nutrizione artificiale. Il suo caso si trasformò in una lunghissima vicenda giudiziaria tra la famiglia, che voleva interrompere il trattamento terapeutico, e la giustizia italiana. Alla fine divenne persino un caso politico, e oggi il volto di Eluana è il simbolo stesso della lotta all’accanimento terapeutico e del dibattito sulle questioni di fine vita. Una parte dell’opinione pubblica si dichiarò contraria all’interruzione della nutrizione artificiale mediante sondino nasogastrico, ovvero una vera e propria eutanasia. Un’altra parte dell’opinione pubblica, si dichiarò invece favorevole al rispetto della volontà della diretta interessata, ricostruita tramite le testimonianze della famiglia e degli amici, pur in assenza di un testamento biologico formale e diretto.
L’incidente stradale che portò Eluana su un letto d’ospedale avvenne il 18 gennaio 1992, quando la ragazza stava tornando da una festa. La giovane, che aveva da poco compiuto 21 anni e frequentava la facoltà di Lingue all’Università di Milano, perse il controllo dell’automobile a causa del fondo stradale gelato e si schiantò contro un palo della luce prima e contro un muro poi, riportando lesioni craniche giudicate gravissime fin da subito e una frattura con slivellamento della seconda vertebra. Quest’ultima, in particolare, causò un’immediata paresi di tutti e quattro gli arti. Eluana era già in coma quando arrivarono i soccorsi. Venne ricoverata nel reparto di Terapia Intensiva degli ospedali di Lecco e Sondrio, e dopo alcuni mesi uscì dal coma, ma le e lesioni cerebrali non le lasciavano via di scampo: era in stato vegetativo irreversibile. Eluana, dunque, non aveva più alcuna coscienza di sé e del mondo circostante, non poteva comunicare o interagire in alcun modo; lo stato di incoscienza dei pazienti, in questi casi, è totale.
I genitori della ragazza, appresa la situazione in cui versava la figlia, chiesero subito ai medici la sospensione dei trattamenti, anche ‘forti’ del fatto che la stessa Eluana, in passato, si era spesso detta contraria a inutili accanimenti terapeutici, come hanno più volte testimoniato familiari e amici. Il padre di Eluana, Beppino Englaro, dal 1999 chiese ripetutamente per via giudiziaria la sospensione dell’alimentazione artificiale e delle terapie a cui era sottoposta la figlia. Fino al marzo 2006 la Cassazione respinse le richieste della famiglia Englaro per un vizio del procedimento: il ricorso non fu notificato ad alcuna controparte portatrice di un interesse contrario a quello di Eluana Englaro. Il ricorso fu presentato ai sensi del citato articolo 32 della Costituzione: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Ma il padre della ragazza non si arrese e presentò un altro ricorso, la Corte di Cassazione, dunque, rinviò il caso «ad una diversa sezione della Corte d’Appello di Milano». La sentenza, depositata il 16 ottobre 2007, stabilì due presupposti necessari per poter autorizzare l’interruzione dell’alimentazione artificiale: è necessario che «la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno»; è inoltre necessario «che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona».
Fu solo con il decreto del 9 luglio 2008, che la Corte d’Appello civile di Milano autorizzò Beppino Englaro, in qualità di tutore della figlia, ad interrompere il trattamento di idratazione ed alimentazione forzata che manteneva in vita Eluana. Il motivo della decisione fu la «mancanza della benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno». A quel punto l’azione di interrompere l’alimentazione doveva essere compiuta concretamente, e non fu semplice. Le Suore Misericordine, che dal 1994 in poi si presero cura di Eluana presso la casa di cura Beato Luigi Talamoni di Lecco, si rifiutarono e si dissero disposte a continuare ad assistere la donna: chiesero persino al padre di abbandonare Eluana alle loro cure e dimenticarsi di lei. Beppino, fermamente deciso a fare la volontà della figlia, la fece trasferire in un’altra struttura. Il 3 febbraio 2009 un’ambulanza con a bordo Eluana Englaro partì dunque alla volta della Residenza Sanitaria Assistenziale “La Quiete” di Udine. Un gruppo di circa quindici tra medici e infermieri, volontari ed esterni alla clinica, si rese disponibile ad attuare il protocollo terapeutico concordato con la famiglia Englaro, ovviamente in base a quanto disposto dalla Corte d’Appello di Milano.
Davanti alla clinica giunsero manifestanti da tutta Italia per protestare contro ciò che stava accadendo, definita come una “condanna a morte“, e inveendo verbalmente e brutalmente contro il padre della ragazza, già provato da anni di sofferenze. I manifestanti arrivarono persino ad urlare “Eluana svegliati“, come se la scienza e tutto ciò che nei precedenti 17 anni i medici avevano detto e stabilito, si potesse cancellare con un colpo di spugna. Alcuni tentarono addirittura di impedire all’autoambulanza che trasportava Eluana di arrivare alla clinica, buttandosi contro il mezzo e richiedendo l’intervento delle Forze dell’Ordine. Il 6 febbraio 2009 i macchinari che alimentavano Eluana Englaro vennero spenti.