A gennaio del 2016 era arrivata una delle sentenze destinate a fare storia: lo Stato era stato condannato a risarcire la famiglia di un paracadutista dell’Arma dei Carabinieri morto nel 200 di ritorno dalla Bosnia. Il Tribunale di Firenze aveva riconosciuto la responsabilità del Ministero della Difesa, stabilendo un risarcimento di oltre ottocentomila euro. Ad uccidere l’uomo, che aveva 41 anni, è stato un tumore al colon che si era diffuso anche a polmone, fegato, peritoneo e ossa. Il tutto in pochissimi mesi. Fino a pochi mesi prima di morire, infatti, aveva preso parte a missioni militari all’estero, lavorando in teatri operativi come la Bosnia o la Somalia. E secondo quella sentenza il paracadutista sarebbe stato esposto a “numerosi fattori di rischio, quali l’inquinamento atmosferico, le contaminazioni tossiche provocate dall’impatto e dall’esplosione delle munizioni a uranio impoverito, nonché le esalazioni dei gas di scarico degli automezzi bellici e dei solventi chimici usati per la pulizia delle armi“, proprio in questi due teatri operativi.
Le prove che la patologia che ha ucciso il militare sia dovuta all’esposizione all’uranio impoverito erano inconfutabili, considerato che all’interno delle sue cellule sono state individuate “particelle esogene idonee a provocare patologie tumorali“; e si tratta delle medesime particelle individuate nel corso degli studi avviati dall’aviazione militare statunitense negli anni settanta, il cui scopo era proprio quello di verificare gli effetti dell’uranio impoverito. Ma nonostante questo il Ministero della Difesa aveva deciso di ricorrere in appello. Pochi giorni fa è arrivato il responso del secondo grado di giudizio: l’appello del Ministero è stato rigettato e si è proceduto solo a modificare le somme che lo Stato deve risarcire alla famiglia. Secondo i giudici “la sussistenza di un nesso di causa tra la malattia e la suddetta esposizione appare di gran lunga più probabile del suo contrario“. Tanta la soddisfazione del legale della famiglia, Angelo Fiore Tartaglia, avvocato che da anni si spende per la causa dell’uranio impoverito e del riconoscimento del nesso di causalità con l’alta incidenza di tumori registrata tra gli appartenenti alle Forze Armate. Tartaglia, nel 2016, aveva dichiarato: “Non c’è tempo per fermarsi, altri stanno aspettando, la giurisprudenza sta maturando in modo netto e chiaro e niente potrà fermare la giustizia che arriverà per ogni uno di questi ragazzi che considero orgoglio per tutti gli italiani“. Parole profetiche, a giudicare dalla nuova sentenza.