In questo terzo articolo della saga dei “veleni bianchi” (zucchero, latte, sale, farina) parleremo delle fake news sul sale alimentare e le varianti presenti in commercio: che differenza c’è tra quello bianco e quelli “colorati”? Dobbiamo preferirli al sale bianco raffinato? È vero che il sale integrale è migliore e che quello rosa dell’Himalaya fa bene?
Scopriamo cosa dice la scienza.
Quando è stato scoperto il sale?
Nel Neolitico, ma veniva utilizzato prevalentemente per conservare i cibi.
Con la nascita dell’agricoltura e il conseguente cambiamento nella loro dieta, i nostri antenati si accorsero che questo alimento poteva essere utilizzato come conservante per gli alimenti deperibili (come carne e pesce). Fu allora che nacque la tecnica della salatura, che si diffuse ben presto tra tutte le popolazioni e che viene tutt’oggi impiegata nell’industria alimentare.
Fu solo in epoche successive che gli uomini riuscirono a determinare un cambiamento nel gusto del sale, altrimenti amaro e sgradevole, che lo rese un elemento indispensabile nell’alimentazione di tutti i giorni.
Come leggiamo in un articolo del Ministero dei Beni Culturali: “Le popolazioni che abitavano lungo le coste europee in età pre-protostorica producevano limitate quantità di sale facendo bollire l’acqua di mare sino ad ottenere la cristallizzazione ed il deposito del cloruro di sodio. Successivamente comparve un metodo di produzione più intensivo: quello delle grandi saline ad evaporazione solare. L’acqua marina, raccolta in grandi vasche artificiali disposte in prossimità dei litorali, evaporava naturalmente permettendo così la concentrazione del cloruro di sodio.”
“Il sale bianco è raffinato, perciò fa male”
Falso, il sale destinato all’alimentazione è sempre “raffinato”.
Come abbiamo già visto nell’articolo sullo zucchero bianco, i termini “integrale” o “grezzo” non sono e non possono essere sinonimo di purezza, poiché è proprio il processo di raffinazione (o meglio, purificazione) a garantirci la qualità del prodotto finale.
Infatti, se da un lato è vero che il sale da cucina è composto da semplici cristalli di cloruro di sodio, dall’altro bisogna considerare che questa molecola, in natura, la troviamo sempre combinata a una grande quantità di sostanze diverse: ne è un classico esempio l’acqua di mare.
Se lasciassimo evaporare dell’acqua di mare al sole otterremmo sì dei cristalli di sale, ma avrebbero un sapore sgradevole e sarebbero inadatti al consumo alimentare, proprio a causa di tutte quelle altre sostanze normalmente presenti in mare (come il solfato di calcio, il cloruro di magnesio, ecc.).
Allora cosa sono questi sali colorati che vediamo al supermercato?
Sono tipi di sale che non hanno subito un processo di purificazione completo.
Come nel caso dello zucchero, il cloruro di sodio è una molecola naturalmente di colore bianco, ma oggi lo troviamo in commercio con varie colorazioni.
Il sale può essere estratto in forma solida dai depositi di salgemma o ricavato attraverso la cristallizzazione di acqua salata (nelle saline). È proprio in base a questa distinzione che dobbiamo catalogare i diversi tipi di sale “colorato” in commercio.
Il sale rosso delle Hawaii, quello nero di Cipro e quello grigio di Bretagna sono infatti sali marini, mentre il sale rosa dell’Himalaya e quello blu di Persia vengono estratti da miniere di salgemma (o halite), formatesi nel corso delle ere geologiche a causa dell’evaporazione di masse d’acqua salata (antichi laghi salati o mari).
A fornire particolarità al sale nero di Cipro è l’aggiunta di carbone vegetale, che gli conferisce questa colorazione scenografica molto sfruttata nella cucina gourmet.
Per quanto riguarda invece il sale rosso delle Hawaii e il sale grigio di Bretagna, entrambi devono la loro colorazione al residuo dei due diversi tipi di argilla, mantenuto dai produttori durante la fase di purificazione.
Menzione a parte meritano i cosiddetti sali “di miniera”: il sale rosa dell’Himalaya e quello blu di Persia.
Il sale blu, estratto dalle miniere dell’attuale Iran, deve il suo colore alla presenza di silvite, un cloruro di potassio che in natura assume varie colorazioni, tra cui quella bluastra.
Caso particolare costituisce invece il sale rosa, il più famoso e amato da tutti i fanatici del naturale, sul quale le informazioni fuorvianti nascono già a partire dal nome.
Il sale rosa infatti proviene dal Salt Range, una catena montuosa del Pakistan che al suo interno custodisce una delle più grandi miniere di sale del mondo e che con l’Himalaya non ha nulla a che vedere.
La colorazione rosa, in questo caso, è conferita dalla presenza di ossido di ferro (il principale componente della ruggine, ma niente allarmismi! Non costituisce alcun rischio per la salute).
Tutte queste sostanze (carbone vegetale, argilla, ossido di ferro) che danno le diverse varietà cromatiche al sale sono quindi una componente “in più” rispetto al sale puro, che come abbiamo detto è bianco.
Come mostra il Prof. Dario Bressanini in un esperimento sul suo canale YouTube, se sciogliessimo uno qualsiasi di questi sali in acqua, ne vedremmo venir fuori una soluzione variamente colorata; facendola passare attraverso un comune filtro in carta ci accorgeremmo che l’acqua viene fuori limpida, mentre nel filtro si raccoglie tutta la “polvere” della sostanza che conferisce la colorazione.
“Quindi con la raffinazione totale vengono eliminate sostanze preziose per l’organismo?”
No, la concentrazione di queste sostanze è troppo bassa per avere qualsiasi effetto benefico.
Le innumerevoli proprietà benefiche che vengono attribuite ai diversi sali grazie alle sostanze che ne danno la colorazione, sono in realtà state smentite dalla scienza. Ad esempio, nessuna di queste tipologie di sale contiene “meno sodio”, ciò che cambia è che nella composizione del prodotto, a parità di peso, una piccolissima percentuale è composta dalla sostanza che dà il colore. Ma il risultato è che per raggiungere lo stesso grado di salatura saremo portati a utilizzare più prodotto.
Nel caso del sale rosa, invece, dalle analisi di laboratorio è emerso che allo stato di estrazione contiene metalli come Rame, Zinco, Cadmio, Nickel, Piombo, Alluminio e altri.
Alcune di queste sostanze, che comunque non sono “84 oligoelementi” come qualcuno vorrebbe far credere (sono circa 20 le sostanze trovate in fase di analisi), in piccole dosi sono utili per il funzionamento del nostro organismo, ma per assumerne una quantità significativa in tal senso dovemmo avere un consumo di sale giornaliero molto al di sopra dei limiti stabiliti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Il Cadmio e il Piombo, invece, oltre a non essere necessari sono stati classificati come tossici dall’OMS, oltre un certo limite, e hanno la tendenza ad accumularsi nell’organismo.
Anche in questo caso, non diamo il via a facili allarmismi: la quantità di metalli pesanti che rischiamo di assumere attraverso il consumo di sale rosa dell’Himalaya sembra essere nei parametri di sicurezza stabiliti dall’OMS. Inoltre questi studi riguardano il sale in fase di estrazione, mentre nessuno studio è presente in merito a quello commercializzato in Italia, che potrebbe quindi essere privo di rischi.
In conclusione
Non esiste un sale con effetti benefici sull’organismo e non esistono sali che contengano “84 oligoelementi essenziali”.
L’unica sostanza di cui fino ad oggi è stata riscontrata necessità, perché in Italia tendiamo ad averne carenza, è lo Iodio. Per questo motivo da anni troviamo in commercio sale arricchito dalla sua aggiunta.
Tuttavia è noto come l’utilizzo spropositato del sale, come abbiamo visto anche per lo zucchero e il latte, possa causare diverse problematiche, tra cui l’ipertensione arteriosa.
A questo proposito, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stabilito delle raccomandazioni sull’assunzione di sale, dove consiglia, per gli adulti, di non superare i 5 gr. quotidiani.
Cosa sono “Le sbufale”?
“Le sbufale” è una rubrica di approfondimento dedicata alle fake news in campo alimentare, cosmetico e medico, analizzate dal punto di vista scientifico.
Per essere consumatori consapevoli è importante imparare a riconoscere le bufale e il modo in cui vengono sfruttate dal marketing (ad esempio attraverso la diffusione dei prodotti “senza”, come vedremo soprattutto nel campo della cosmetica). Queste disinformazioni registrano un ampio seguito grazie alla loro capacità di far leva sulle paure del consumatore, portandolo a spegnere la parte razionale del cervello e ad avere la reazione istintiva di proteggersi dalla sostanza definita “veleno”, senza verificare che la notizia sia vera.