Sono passati 20 anni dalla scomparsa di Fabrizio De Andrè, 20 anni in cui il mondo ha subìto una delle sue trasformazioni più profonde. E chissà in che modo Faber avrebbe vissuto questo ventennio, chissà con quale occhio lo avrebbe guardato e con quali parole lo avrebbe raccontato. Probabilmente con il suo consueto riserbo, schivando i curiosi, sarebbe rimasto lì, ai margini della società, come i grandi che non hanno bisogno di ritagliarsi a tutti i costi uno spazio in prima fila. L’aveva scelto, quel posto nel mondo, per dare voce a tutti coloro che lì, ai margini, erano stati messi senza possibilità di appello né remissione: gli ultimi, i disperati, i diversi. Vagabondi, erranti, prostitute. Gli esclusi sono diventati con lui personaggi senza tempo, simboli di una rivoluzione che non deve imbracciare il fucile per essere ascoltata.
Fabrizio De André nasceva il 18 Febbraio 1940, il padre lo avrebbe voluto avvocato, ma lui amava la poesia. Non ebbe scelta, come lui stesso confessa: “Benedetto Croce diceva che fino a diciotto anni tutti scrivono poesie e che, da quest’età in poi, ci sono due categorie di persone che continuano a scrivere: i poeti e i cretini. Allora, io mi sono rifugiato prudentemente nella canzone che, in quanto forma d’arte mista, mi consente scappatoie non indifferenti, là dove manca l’esuberanza creativa.“
Inizia così la sua carriera di cantautore, e va da sé che fu un successo. Faber si distinse subito. Come pochi prima di lui, seppe introdurre la vera poesia nella canzone, sublimandola con una musica che accompagnava senza oscurare. Viveva a Genova, ma era un cosmopolita d’animo. Da Bob Dylan, a Leonard Cohen, passando per Edgar Lee Masters e Umberto Saba, seppe conoscere il mondo senza farsi cambiare da esso. Di ogni storia, anche quelle già viste, anche quelle sbagliate, seppe mostrare il suo punto di vista anarchico, antiborghese, anticonformista.
E fu così che la morte di una prostituta divenne l’incantevole storia di Marinella, ed il gesto disperato di Michè una ballata, mentre il profondo male di vivere si rivelò nel “Cantico dei Drogati“, o in un Amico troppo fragile per i costumi di una società d’apparenza. Cantò l’amore, ed anche lì seppe elevarlo, fuggendo dalla retorica che lo riduce ad una rima baciata o ad un’assonanza simpatica. L’amore, l’attesa, gli incroci, il destino. La scelta e il coraggio. La fede. Definì Gesù di Nazareth “il più grande rivoluzionario di tutti i tempi“, senza addentrarsi in questioni religiose anche perché “se Dio non esistesse bisognerebbe inventarlo. Esattamente ciò che ha fatto l’uomo da quando ha messo i piedi sulla terra” . Ed anche questo suo pensiero divenne poesia, una Buona Novella.
S’innamorò della Sardegna, dove visse per un periodo. Il suo viaggio conobbe il sequestro insieme alla moglie, ma fu in grado di trasformare anche quello. “Passerà anche questa stazione senza far male, passerà questa pioggia sottile come passa il dolore”. Ogni avvenimento diventava uno stimolo di riflessione, un punto interrogativo dal quale trarre una morale, una possibilità di snaturare le verità del mondo per rivelarne altre, celate, ma forse più reali. La sua interpretazione rivelava una profonda pietas latina, le sue storie una dignità e probabilmente un’inconsapevole volontà di riscatto.
Faber è scomparso l’11 Gennaio 1999, ed in molti ci chiediamo come sarebbe stato oggi il suo sguardo su questo mondo così veloce, connesso e talvolta superficiale. Forse ne sarebbe nata una nuova “Canzone di Maggio”, o un nuovo “Valzer dell’amore cieco”, ma chissà, molto probabilmente avrebbe ancora una volta stupito tutti con un’interpretazione nuova, diversa e avanguardista. Come il suo spirito e le sue canzoni, che pur di un’altra epoca, rimangono eterne. Ci manchi Faber.