Un nuovo studio pubblicato oggi sulla rivista Nature Astronomy da Guido Risaliti (Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Firenze e associato INAF presso l’Osservatorio di Arcetri) ed Elisabeta Lusso (Centre for Extragalactic Astronomy, Durham University) ha permesso per la prima volta di misurare l’espansione dell’Universo andando indietro nel tempo fino a circa un miliardo di anni dopo il Big Bang.
Il risultato è stato possibile grazie allo studio dell’emissione in luce X e ottica dei quasar, le sorgenti più luminose dell’Universo, prodotte da dischi di gas in caduta su buchi neri giganti nel centro delle galassie. I due ricercatori hanno utilizzato un enorme database che raccoglie circa 500 mila quasar, osservati in luce ottica nell’ambito del progetto Sloan Digital Sky Survey. Di alcune migliaia di questi oggetti è stata analizzata anche la luce in banda X, osservata dal telescopio spaziale XMM-Newton, dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA). Il nuovo metodo sviluppato dagli autori di questo studio permette di valutare le distanze dei quasar dal confronto fra la loro emissione X e quella ottica.
Spiega Risaliti: “Una delle scoperte più inattese e importanti dell’astrofisica recente è che l’espansione dell’Universo è accelerata. Questo implica la presenza di una forza repulsiva che pervade tutto lo spazio, a cui si dà genericamente il nome di energia oscura. Per determinare il tasso di espansione dell’Universo è indispensabile misurare con precisione la distanza delle galassie. La scoperta dell’espansione accelerata, circa venti anni fa, è avvenuta proprio quando gli astronomi hanno imparato a usare le supernovae, gigantesche esplosioni stellari, per misurare la distanza delle galassie”.
Con questo metodo è oggi possibile studiare l’espansione dell’Universo da circa 9 miliardi di anni fa a oggi. Considerando che secondo le stime più recenti l’età dell’ Universo, cioè il tempo trascorso dal Big Bang a oggi, è di 13,7 miliardi di anni, rimane da studiare l’evoluzione dell’Universo nei primi 4-5 miliardi di anni.
Lusso commenta: “Usare i quasar come indicatori ha un grande potenziale, dal momento che li possiamo osservare a distanze maggiori rispetto alle supernovae di tipo Ia, e quindi usarli per esplorare epoche molto precedenti nella storia del cosmo”.
Lo studio ha fornito risultati del tutto in accordo con quelli già ottenuti con le supernovae per quanto riguarda l’espansione ‘recente’ dell’Universo, ma ha misurato anche un’evoluzione nei primi miliardi di anni dal Big Bang diversa da quella attesa sulla base del ‘modello cosmologico standard’, che assume una densità di energia oscura costante nel tempo. Per riprodurre le osservazioni nell’ambito del modello standard, è quindi necessario assumere una evoluzione temporale dell’energia oscura.
Il modello proposto dai due autori troverebbe una soluzione anche un altro problema che ha tenuto occupati i cosmologi negli ultimi anni, riguardo alla costante di Hubble – l’attuale tasso di espansione cosmica. Il dibattito riguarda discrepanza che è stata trovata tra le stime della costante di Hubble nell’Universo locale, basate su dati provenienti dalle supernovae, e quelli basati sulle osservazioni della missione spaziale Planck sul fondo cosmico a microonde nell’Universo primordiale.
Risaliti sottolinea: “Il nostro modello è piuttosto interessante perché potrebbe risolvere due enigmi nello stesso momento, ma dovremo analizzare molti più modelli in dettaglio prima di poter risolvere questo mistero cosmico”.
Secondo gli autori, questo ultimo risultato dovrà essere confermato da ulteriori misure, ma è certo che l’utilizzo dei quasar come traccianti dell’espansione dell’Universo apre un nuovo interessante ramo della cosmologia osservativa, che potenzia ed estende a tempi finora inesplorati quelli conosciuti finora.
L’articolo “Cosmological constraints from the Hubble diagram of quasars at high redshifts” di G. Risaliti (Dipartimento di Fisica e Astronomia, Università degli Studi di Firenze, e INAF-Osservatorio Astrofisico di Arcetri) ed E. Lusso (Centre for Extragalactic Astronomy, Durham University) è stato pubblicato sulla rivista Nature Astronomy.