Circa 88 miliardi di fatturato, 22 miliardi di valore aggiunto, l’1,5% del valore aggiunto nazionale. Sono i numeri dell’economia circolare oggi in Italia, secondo gli ultimi dati dell’indagine ‘L’economia circolare in Italia – la filiera del riciclo asse portante di un’economia senza rifiuti‘ di Ambiente Italia, risultato del lavoro del Gruppo Riciclo e Recupero del Kyoto Club. E’ questa la fotografia sull’effettiva diffusione nel nostro Paese di un sistema industriale, produttivo e sociale non più votato allo spreco ma alla circolarità di beni e prodotti. La ricerca di Ambiente Italia mostra come nel corso del tempo siano progressivamente cresciuti sia i recuperi ‘open loop’, cioè in altri cicli produttivi (ad esempio vetro nell’industria ceramica o altri materiali nell’industria edile), che i ricicli all’interno dello stesso ciclo produttivo.
In Italia, l’impiego di materie seconde è fondamentale per molti settori manifatturieri e in particolare per alcuni settori strategici, come la produzione siderurgica e metallurgica. Ad esempio, tutto l’alluminio prodotto nel nostro Paese, oltre 900mila tonnellate nel 2017, proviene dal riciclo: il 100%.
La gestione del ciclo di vita dei prodotti e del ciclo di vita dei rifiuti, spiega la ricerca, sono nel cuore dell’economia circolare, tanto che essa non riguarda solo ciò che succede dopo la produzione e il consumo di un bene, ma parte dalla progettazione a monte di un sistema più efficiente riguardo all’uso di risorse. Prevede, innanzitutto, che vengano utilizzate in modo massiccio le fonti e le risorse rinnovabili, elemento centrale della sostenibilità, e che chi produce e chi consuma diventi responsabile del ciclo di vita del prodotto.
L’economia circolare è, dunque, un sistema in cui tutte le attività, a partire dall’estrazione e dalla produzione, sono organizzate in modo che i rifiuti di qualcuno diventino risorse per qualcun altro. Nell’economia lineare, invece, terminato il consumo termina anche il ciclo del prodotto che diventa rifiuto, costringendo la catena economica a riprendere continuamente lo stesso schema: estrazione, produzione, consumo, smaltimento.
Sono quattro i principi fondamentali dell’economia circolare.
– I rifiuti non esistono. I componenti biologici e tecnici di un prodotto (i nutrienti, per stare alla metafora biologica) sono progettati col presupposto di adattarsi all’interno di un ciclo dei materiali, progettato per lo smontaggio e ri-proposizione. I nutrienti biologici sono atossici e possono essere semplicemente compostati. I nutrienti tecnici polimeri, leghe e altri materiali artificiali, sono progettati per essere utilizzati di nuovo con un dispendio di energia minimo.
– La diversità è forza: modularità, versatilità e adattabilità sono da privilegiare in un mondo in incerta e veloce evoluzione. Lavorando verso l’economia circolare, dovremmo concentrarci su prodotti di più lunga durata, sviluppati per l’aggiornamento, l’invecchiamento e riparazione, considerando strategie come il design sostenibile. Diversi prodotti, materiali e sistemi, con molti collegamenti e misure sono più resistenti di fronte a shock esterni, rispetto ai sistemi costruiti solo per l’efficienza.
– Energia da fonti rinnovabili: come per tutti gli esseri viventi, l’energia dovrebbe provenire dal flusso generato dalle forze naturali, prima tra tutte l’energia solare.
– Pensiero sistemico: la capacità di capire come le cose si influenzano reciprocamente, entro un intero. Gli elementi sono considerati come ‘adatti a’ infrastrutture, ambiente e contesto sociale. Il pensiero a sistemi di solito si riferisce a sistemi non lineari: sistemi in cui attraverso condizioni di retroazione e partenza imprecisa il risultato non è necessariamente proporzionale all’ingresso e dove l’evoluzione del sistema è possibile: il sistema può evidenziare proprietà emergenti. Esempi di questi sistemi sono tutti i sistemi viventi e qualsiasi sistema aperto come i sistemi meteorologici o le correnti oceaniche; anche le orbite dei pianeti hanno caratteristiche non lineari.
L’economia circolare fattura 22 miliardi, l’1,5% del valore aggiunto nazionale
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