Sarebbe dunque la prima volta che viene osservata l’emissione associata alla nascita di una stella di neutroni o di un buco nero in accrescimento, normalmente oscurata dai densi strati di polveri e gas residui dal collasso gravitazionale di una stella massiccia a fine vita.
Questa la conclusione di uno studio, in via di pubblicazione su Astrophysical Journal, condotto da una vasta collaborazione internazionale guidata dall’italiana Raffaella Margutti della statunitense Northwestern University, a cui hanno partecipato anche ricercatrici e ricercatori dell’Istituto nazionale di astrofisica.
«Sappiamo dalla teoria che buchi neri e stelle di neutroni si formano quando una stella massiccia muore, ma non li abbiamo mai visti subito dopo la loro nascita», commenta Margutti.
Tutto inizia il 17 giugno 2018, quando i telescopi gemelli Atlas alle Hawaii individuano una nuova luce in cielo, simile a una supernova ma dalle caratteristiche peculiari e inedite. A questo “oggetto transiente”, che accende immediatamente l’interesse di astrofisici di tutto il mondo, viene assegnata la sigla At2018cow, e quindi – inevitabilmente – denominato “the Cow”, ovvero “la Mucca”.
«Pensavamo di trovarci di fronte a una supernova», spiega Margutti, «ma quello che andavamo osservando sfidava le nostre attuali conoscenze su come si comporta una stella al termine della propria vita».
In primo luogo, spiegano gli autori del nuovo studio, “la Mucca” era insolitamente brillante, da 10 a 100 volte più luminosa di una tipica supernova. Inoltre, è apparsa e scomparsa molto più velocemente di altre esplosioni stellari note, facendo raggiungere alle particelle di materia espulse velocità fino a 30mila chilometri al secondo, un decimo della velocità della luce. Infine, l’evento ha raggiunto il “picco” molto velocemente, emettendo in soli 16 giorni la maggior parte del suo potere energetico.
Visto l’estremo interesse, “la Mucca” è stata osservata in vari momenti da diversi telescopi, sia terrestri che spaziali, coprendo quasi tutto lo spettro elettromagnetico, dalle onde radio ai raggi gamma.
Grazie all’analisi spettroscopica eseguita con telescopi ottici, Margutti e il suo team hanno determinato la composizione chimica della “Mucca”, trovando chiari segni della presenza di idrogeno ed elio. Un fatto che ha portato a escludere come origine dell’esplosione la fusione di due oggetti compatti, sul genere della kilonova Gw170817 dell’estate 2017.
Un po’ di chiarezza in più è venuta dalle osservazioni in altre lunghezze d’onda eseguite subito dopo la comparsa dell’oggetto, in particolare con radiotelescopi terrestri e con vari telescopi spaziali, tra cui gli osservatori per raggi X NuStar della Nasa e Xmm-Newton dell’Esa e l’osservatorio per raggi gamma Integral dell’Esa.
«L’emissione X di 18cow è stata decisamente “movimentata”, con componenti in rapida evoluzione, ed è stato cruciale utilizzare osservatori con caratteristiche diverse (Xmm-Newton, Integral e NuStar) per studiarla», racconta a Media Inaf Giulia Migliori dell’Inaf di Bologna, tra gli autori del nuovo studio. «In base alle proprietà osservate, pensiamo che l’emissione X provenga direttamente dalla sorgente centrale che alimenta “the Cow”, che potrebbe essere un oggetto compatto (un buco nero o una stella di neutroni) appena formatosi».
Mentre una tipica esplosione dovuta al collasso di una stella massiccia a fine vita produce attorno a sé una densa nube di detriti, uno spesso mantello che blocca la visione agli astronomi su quello che succede al suo interno, “la Mucca” sembra essere al confronto quasi “nuda”.
Dai dati raccolti in circa tre mesi di osservazioni, il gruppo di ricerca ha infatti dedotto che l’evento all’origine della “Mucca” ha lasciato 10 volte meno materiale rispetto a una tipica esplosione stellare. Non solo: i detriti si sarebbero disposti in maniera asimmetrica, lasciando come delle “finestre aperte” proprio verso la visuale terrestre.
In sostanza, l’inusuale carenza di materiale residuo dall’esplosione stellare ha permesso agli astronomi, per la prima volta, di guardare direttamente il “motore centrale” dell’oggetto, un probabile buco nero o una stella di neutroni.
L’eccesso di luminosità osservato per “la Mucca” deriverebbe quindi da un meccanismo ben noto, ovvero l’interazione dei detriti con il buco nero o la stella di neutroni verso cui vengono attratti con un moto vorticoso subito dopo la nascita del corpo compatto. Nel caso specifico, particolari condizioni ambientali, ancora da chiarire, hanno permesso alla radiazione di uscire dal guscio di detriti ed essere osservata.
«Questo ci dà un punto di vista inedito sui fenomeni di formazione ed evoluzione dei buchi neri», aggiunge Migliori, «soprattutto per persone che come me invece sono abituate a lavorare su oggetti che si sono formati da milioni di anni. Per chi lavora sui buchi neri tutti i giorni, questo è qualcosa di estremamente differente».
La natura esatta della “Mucca” è ancora in discussione tra gli scienziati e si attendono nuovi risultati da altri telescopi, mentre gli autori del nuovo studio cercano di cogliere gli ultimi flebili segnali dalla sorgente.
«Un’importante tessera del mosaico di osservazioni di At2018cow in tutte le bande dello spettro elettromagnetico è stata ottenuta con il satellite Integral, che a più di 16 anni dal lancio continua a funzionare a pieno regime fornendo dati fondamentali nella banda gamma, anche grazie al continuo supporto dei ricercatori dell’Inaf» commenta Sandro Mereghetti, ricercatore dell’Inaf di Milano, anch’egli nel team che ha realizzato lo studio. «La campagna osservativa è ancora in corso e speriamo che le nuove osservazioni in raggi X contribuiscano a comprendere questo incredibile evento», conclude Migliori.