E’ stato calcolato che nel mondo ogni 10 minuti vengono somministrati agli animali circa 2,5 tonnellate di antibiotici, solo per favorirne la crescita. Farmaci destinati a passare in vario modo al cibo e all’ambiente, minacciando anche l’uomo. Lo hanno ricordato gli esperti riuniti nei giorni scorsi a Milano per il VII Congresso internazionale Amit – Argomenti di malattie infettive e tropicali.
“Se le resistenze microbiche nell’uomo sono oggetto di crescente attenzione – afferma Massimo Galli, presidente della Simit (Società malattie infettive e tropicali) e co-presidente del summit insieme al tesoriere Simit Marco Tinelli – una preoccupazione non inferiore viene dall’impiego eccessivo e spesso incontrollato negli animali, specie in Paesi emergenti in cui l’allevamento rappresenta un’attività economica di particolare rilievo”.
Nel 2013 – riporta una nota – sarebbero state utilizzate negli animali più di 131 mila tonnellate di antibiotici, a fronte di un utilizzo, stimato conservativamente, di 63 mila tonnellate nel 2010. Un trend che, se non contenuto, porterebbe entro il 2030 a un consumo mondiale superiore alle 200 mila tonnellate di antibiotici per anno.
La sola Cina nel 2013 ne avrebbe utilizzate 78.200 tonnellate, gli Stati Uniti 9.476, il Brasile 6.448, l’India 2.633 e la Spagna, prima in Europa, 2.202. E l’Italia? “Non sarebbe molto lontana da questo ordine di grandezza – si legge – con un consumo negli allevamenti 3 volte superiore a quello della Francia e 5 volte superiore a quello del Regno Unito, pari al 71% del totale antibiotici commercializzati nel Paese, rispetto all’84% della Cina e al 70% degli Usa”. E’ invece meno definito il quantitativo complessivo di antibiotici utilizzati in acquacoltura, che però secondo gli addetti ai lavori “dovrebbe essere stato ridimensionato dalle normative e dall’uso di vaccini”.
Il problema, avvertono gli esperti, è che “l’uso di antibiotici negli animali d’allevamento rappresenta una fucina di nuove resistenze microbiche di particolare estensione e pericolosità per la loro possibile diffusione nell’ambiente”. Già “alcuni microrganismi multiresistenti di origine animale, tra cui ad esempio alcuni ceppi di salmonelle, sono stati individuati come responsabili di malattie di origine alimentare nell’uomo”.
E poi c’è la questione ambientale: “Grandi quantità di antibiotici ancora attivi presenti nelle deiezioni umane finiscono negli scarichi, dai quali, specie nei Paesi in cui i sistemi fognari sono meno efficienti e sicuri, possono riversarsi nell’ambiente. Altrettanto accade per i residui di produzione e le deiezioni animali proveniente dagli allevamenti”.
“In Italia l’entità del problema della resistenza dei batteri agli antibiotici è nota da tempo alle istituzioni – prosegue la nota – Già nel 2017 è stato emanato dal ministero della Salute il Piano nazionale di contrasto all’antibiotico-resistenza (Pncar)”. Nel documento “si evidenzia che l’obiettivo primario per ridurre la diffusione delle resistenze è l’approccio ‘One Health’, secondo il quale il ridimensionamento del fenomeno passa per azioni volte a controllo della diffusione delle resistenze non solo a livello umano, ma anche negli animali e nell’ambiente”.
“Attualmente tutte le organizzazioni sanitarie sono orientate a modelli di gestione che superino la dicotomia tra ospedale e territorio. Tuttavia – fanno notare gli esperti – solo alcune Regioni d’Italia hanno già attivato le azioni previste nel Pncar”.
“E’ necessario implementare alcuni punti fondamentali – ammonisce Galli – Bisogna favorire percorsi che facilitino la tempestività della diagnosi e di conseguenza terapie mirate, potenziando negli ospedali i servizi di diagnostica microbiologica e di controllo delle infezioni. In secondo luogo si deve limitare il più possibile la somministrazione di antibiotici di terzo livello, ricorrendo a regimi terapeutici alternativi che consentano di preservarne l’utilizzo. E’ inoltre possibile, in molti casi, ridurre la durata dei trattamenti. Recenti studi dimostrano che, in quasi il 70% delle terapie antibiotiche, i tempi di somministrazione possono essere ridotti anche del 30-40%”.