Tecnicamente ‘sani’, eppure fuori forma, non autosufficienti e incapaci di far fronte ai cambiamenti della vita e allo stress. I medici la chiamano ‘sindrome della fragilità geriatrica’, “un decadimento funzionale e cognitivo che contribuisce ad aumentare il rischio di malattia e di morte, e che finisce con l’assorbire un’ampia fetta di risorse del sistema sanitario nazionale”.
La condizione colpisce il 15% degli over 65 italiani e i meccanismi che la causano sono al centro di uno studio della Fondazione MultiMedica Onlus, supportato da Fondazione Cariplo. L’ipotesi dei ricercatori è “che un midollo osseo ‘guasto’, in cui le cellule riparative non funzionano più come dovrebbero, sia la causa della fragilità e quindi di un invecchiamento in qualche modo accelerato”.
Si tratta ora di capire se è vero e l’arruolamento dei pazienti è in corso. Il progetto è stato illustrato oggi durante un convegno sull’anziano fragile all’Irccs MultiMedica di Sesto San Giovanni, Milano. Nell’occasione sono stati discussi anche gli ultimi avanzamenti di un altro programma di ricerca che vede insieme Fondazione MultiMedica e Fondazione Cariplo, sulla proteina anti-invecchiamentoBpifb4 e la sua variante ‘fortunata’ Lav (Longevity-Associated Variant). “Fondazione Cariplo è lieta di contribuire col proprio sostegno a iniziative messe in atto dalle Istituzioni lombarde e volte al miglioramento della salute”, dichiara Carlo Mango, direttore Area Ricerca scientifica dell’ente.
“La fragilità è caratterizzata da perdita di massa muscolare e ossea, con debolezza, ridotta mobilità, aumentato rischio di fratture, anemia, rallentamento nella guarigione delle ferite e predisposizione alle infezioni e declino cognitivo – spiega Paolo Madeddu di Fondazione MultiMedica – Molti sintomi della fragilità possono essere attribuiti al midollo osseo, l’organo che costituisce la principale riserva di cellule staminali e che presiede al mantenimento della omeostasi dell’intero organismo. Finora, però, nessuno studio specifico ha dimostrato l’associazione tra la disfunzione del midollo osseo e la fragilità.
L’obiettivo del nostro progetto è proprio quello di mettere in relazione le alterazioni quantitative e funzionali delle cellule riparative presenti nel midollo osseo e in circolo nel sangue con la fragilità, misurata attraverso un questionario standard riconosciuto a livello internazionale. Proponiamo poi di intervenire con l’esercizio fisico e la terapia nutrizionale, per invertire il circolo vizioso che porta all’inattività, alla mancata forma fisica e alla disabilità”.
“Attualmente stiamo arruolando i pazienti – riferisce Gaia Spinetti, biologa della Fondazione MultiMedica – Sono soggetti sottoposti a protesi d’anca per artrosi, nei quali possiamo studiare il midollo osseo presente nella testa del femore che, invece di essere considerata materiale di scarto operatorio, viene inviata al nostro laboratorio per l’analisi della struttura e dell’abbondanza di cellule riparative. Per ogni paziente facciamo una stima dell’indice di fragilità secondo i criteri dello ‘score di Rockwood’, un punteggio da 0 a 40 che tiene conto dell’indipendenza nello svolgere le attività della vita quotidiana, di una valutazione psico-sociale, di eventuali comorbidità, dello stato mentale e di quello nutrizionale, della capacità polmonare e della forza muscolare. Da 0 a 16 abbiamo un indice di fragilità lieve, da 16 a 27 moderato e da 27 a 40 severo. Cercheremo poi di capire se ai diversi livelli di fragilità misurati nei pazienti corrispondono specifiche caratteristiche del midollo osseo”.
“Ci aspettiamo di rilevare nei pazienti più fragili una diminuzione della quantità di cellule riparatrici midollari e circolanti – prosegue Spinetti – Auspichiamo inoltre che gli interventi nutrizionali e di esercizio fisico correlino invece con un aumento delle cellule riparative, indicando un recupero della funzionalità midollare. Un primo dato preliminare già emerso è l’effettiva associazione inversa tra il livello di attività fisica e la fragilità: più esercizio si pratica, meno si è fragili”.
E poi ci sono la proteina Bpifb4 e la sua variante Lav, identificata grazie a una serie di studi durati anni, che l’hanno rilevata in misura maggiore nei centenari rispetto alla popolazione generale. “Questa variante è stata selezionata dal processo evolutivo per l’adattamento all’ambiente – riporta Annibale Puca di Fondazione MultiMedica – La proteina, abbondante nei centenari sani, ha un grosso potenziale terapeutico come accertato dalla sua somministrazione in modelli animali di disfunzione endoteliale, ischemia periferica, ipertensione, aterosclerosi e fragilità (questi ultimi dati sono ancora preliminari o non pubblicati). I meccanismi attraverso i quali la proteina opera sono stati in parte svelati. Ulteriori sforzi sono necessari per la piena comprensione dei potenziali terapeutici della Lav ed è su questo fronte che ci stiamo concentrando”.