Dall’arrivo dei ‘super–farmaci‘ contro l’epatite C, molto è stato fatto nella lotta alla malattia. Per riuscire a ottenere l’obiettivo più ambizioso, quello di eradicare il virus, occorre concentrarsi sulle popolazioni più difficili. A sottolinearlo numerosi studi presentati all’Internationl Liver Congress 2019, in corso a Vienna. Un appuntamento che ha richiamato oltre 10 mila tra epatologi, gastroenterologi, virologi e farmacologi di tutto il mondo, per fare il punto sulla ricerca e la terapia delle malattie del fegato. La prossima frontiera per l’eliminazione dell’epatite C passa dunque per i carcerati, ma anche gli homeless. Popolazioni ‘serbatoio’, con delle peculiarità da tener presenti. A metterlo in luce, in particolare, uno studio condotto in Islanda dal team di Magnus Gottfredsson del National University Hospital di Reykjavik.
Il team in 2 anni ha avviato al trattamento 631 pazienti, con un tasso di successo per un ciclo di cura di oltre il 90% fra i partecipanti. Ma alcuni gruppi si sono rivelati più difficili da trattare. Fra questi proprio i carcerati e gli homeless, a causa di una discontinuità della terapia e dell’uso di droghe iniettabili. “Il punto è mettere in luce e trattare il sommerso“, sottolinea Alessia Ciancio delle Molinette di Torino. “Molti Paesi hanno completato lo screening e hanno dei registri completi. In Italia questo non accade ancora. Penso sia importante entrare nelle carceri e raggiungere queste popolazioni se vogliamo contrastare efficacemente l’epatite C“.
In Piemonte il gruppo di Ciancio ha presentato un progetto pilota per entrare al carcere Le Vallette. “Nelle carceri c’è il vero sommerso – evidenzia l’esperta – Vogliamo arrivare al primo carcere ‘Hcv zero’, e per farlo pensiamo di sottoporre a test salivare tutti i detenuti, avviando il trattamento di quelli con Hcv. Sarebbe utile anche lavorare con i consultori, o con i medici di medicina generale. Ancora oggi infatti ci arrivano pazienti con malattia avanzata del fegato, già cirrotici“.
Ciancio presenta al congresso dati su 450 pazienti con epatite C e in alcuni casi co-morbidità anche importanti, trattati con terapie sofosbuvir-based. “Non abbiamo registrato problemi o differenze di efficacia nei pazienti con co-morbidità rispetto a quelli che non ne avevano, anzi il tasso di risposta è stato lievemente superiore in questo gruppo“, conclude.